Come si racconta una vita normale
Per scegliere i momenti importanti, più che gli eventi importanti, del tuo personaggio.
Nel 2005 iniziavo la quinta superiore con la sensazione che la maglietta che avevo sempre indossato fosse ormai stretta. In quinta avevo ormai abbastanza chiaro in testa che avevo commesso un terribile errore ad iscrivermi a quel liceo scientifico e ad accettare la mia classe come si accetta un corpo brutto, o un timbro vocale squillante e nasale. Avrei potuto cambiarla, correggere un destino che forse non aveva voluto ascoltarmi o non mi aveva sentito, ma me ne ero reso conto troppo tardi, e quindi mi preparavo ad affrontare quell'anno sperando solo che durasse il meno possibile, rendendomi invisibile ai compagni di classe, e alle loro dinamiche che disprezzavo, assicurandomi la sufficienza e smettendo di seguire l'eccellenza, compiacendo i professori che mi parevano cambiare strada di continuo senza avere un disegno sotto, cercando di vivere il più possibile al di fuori di quella realtà che durava fino a ora di pranzo e che poi mi lasciava libero di immaginare il mondo futuro, quello che avrei potuto decidermi da solo.
Mio nonno morì all'improvviso, dopo un banale intervento ortopedico, il 6 dicembre di quell'anno. Qualche settimana dopo, in una Padova innevata, arrivai di proposito in ritardo a scuola, per saltare la prima ora di Inglese ed evitare una possibile interrogazione che mi avrebbe soltanto affossato. La mia professoressa di Inglese mi detestava, o almeno io ne ero convinto, e mi detestava perché avevo un inglese di netto superiore a quello dei miei compagni, io lo sapevo, lei lo sapeva, e quindi io studiavo meno e lei pretendeva di più, e il mio atteggiamento da "so già tutto" la mandava in bestia, al punto da prendermi di mira e tormentarmi. Saltai quell'ora di Inglese perché non avevo voglia di farmi infastidire, e andai al cimitero a visitare il nonno, che da poco alloggiava lì.
Davanti alle tombe, i loculi e le foto dei morti mi sono sempre sentito un idiota che non conosce il linguaggio, che non sa come comportarsi, una specie di imbucato a una cerimonia di cui tutti conoscono dei codici non scritti. Guardo le epigrafi e penso "ora dovrei provare dolore, fare dei gesti, ricordarmi ricordi, tenere lo sguardo fisso, ma non so bene cosa sto facendo, perché sono qui, cosa dovrei sentire". E quindi, a un certo punto, ho smesso di andare al cimitero, perché qualsiasi cosa fosse la morte, non mi pareva che lì avesse un modo più vero di essermi comprensibile che fuori.
La settimana dopo arrivai giusto alla prima ora, ma la prof di Inglese non interrogò. Lesse Break, break, break di Alfred Lord Tennyson. Fu, per me, un incontro folgorante, proprio quando ormai avevo mollato.
In Stoner, la prima delle tante scene in cui John Williams riesce a dominare il tempo nei paragrafi è quella che dà via più o meno a tutta la tensione del libro, e cioè quella in cui Stoner, allievo della classe di letteratura inglese nella facoltà di agraria, è incalzato dal professor Archer Sloane sul significato di un sonetto di Shakespeare. La domanda è semplice, eppure vastissima:
"Mr. Stoner, cosa significa il sonetto?".
Stoner è un romanzo che parla di quanto possa essere straordinaria una vita mediocre, spesa sempre nello stesso luogo e votata al lavoro, se la si guarda con certi occhi. L'ho iniziato perché mi aveva fatto una promessa, ma quando ho chiuso l'ultima pagina ero sconvolto.
Questa è l’edizione che ho letto io
All'inizio scorre un po' scolastico, ma andando avanti con la lettura il filtro di William Stoner protagonista sulla terza persona che ne narra la vita è una lente penetrante e corporea che poi fatichi a scrollarti di dosso. Dopo i primi anni del suo matrimonio fino all'epilogo mi sono trovato a sezionarne le pagine senza riuscire a smettere, nella speranza di riuscire a muovere io stesso i fili dei suoi personaggi, per il desiderio di scuotere quell'esistenza a cui ormai ero troppo affezionato per permettere che andasse come stava andando, verso un burrone senza pietà né redenzione.
Dalla prima pagina del libro si sa già tutto: quando nasce Stoner, quando muore, se e come verrà ricordato (poco, per poco tempo, e per essere un insegnante mediocre). Ma mentre leggevo ho finito per dimenticarmene, trovandomi alle ultime battute a credere invece di aver letto le cronache di una vita straordinaria, e i pensieri di un uomo eccezionale.
Mi ha sconvolto anche la sensazione che il romanzo è riuscito a trasmettermi ogni volta che sulla scena si è presentata Edith, la moglie di Stoner: una creatura fragile e depressa, a tratti persino crudele. Williams la trasforma con la lente di Stoner che la osserva per tutta la vita colmo di senso di colpa e di incomprensione in una sorta di animale ferito e velenoso, che si aggira per la casa, a volte mansueto ma sempre in agguato.
Prima di uscire, si voltò e disse: "Sono... sono felice che tu voglia un figlio Edith. So che in un certo senso il nostro matrimonio è stato una delusione, per te. Spero che questo cambierà le cose.
"Sì" rispose lei. "Farai tardi a lezione. Meglio che ti affretti".
Per tutto il romanzo, la vita di Stoner sembra murarsi, mattone dopo mattone, su queste risposte disfunzionali, queste interruzioni del linguaggio: la moglie che risponde un freddo "Sì" a una terribile ammissione di colpa e invito alla redenzione. Per tutto il romanzo, i dialoghi con Edith saranno una levata di terra con la pala, per scavare una buca sotto il terreno di Stoner, che però non vi cadrà.
C'è un punto del romanzo, poco prima della metà, in cui Stoner prende coscienza di aver rifiutato il proprio destino: quando seppellisce i genitori.
Raccontare un'intera esistenza è un compito ingrato che ti costringe a selezionare, a dare significato a minuscole porzioni di una vita, talvolta esagerandolo, e magari a sottovalutarne altri ben più importanti e meno raccontabili. John Williams ha una dote quasi sovrannaturale nella gestione del tempo, del ritmo, delle velocità del romanzo e della vita dei suoi personaggi, ma quel filtro onnipresente che legge la realtà con gli occhi del suo protagonista sembra rivelare che in fondo è lo stesso Stoner ad aver gestito gli stop&go della sua esistenza. Mesi e anni si sciolgono in poche righe, mentre tutto il resto del capitolo si ferma su un dialogo, un gesto, una battuta infelice o una serata diversa che cambiano il corso degli eventi e dei pensieri. Il libro è colmo di momenti di riflessione lugubri e asciutti su uno scorrere dell'esistenza vuoto, che poi danno puntuali il via a un vortice di eventi tutt'altro che normali. Non so se esista un modo più valido di raccontare una vita, ma ciò che mi ha sconvolto quando ho chiuso la pagina è stato rendermi conto che se avessi dovuto mettere su un piano cartesiano gli eventi della vita di William Stoner, ne avrei ottenuto una linea pressoché dritta. Il che vuol dire che, nonostante un mondo declinante, Stoner riesce a non sprofondare mai, ma anche che un racconto di una vita può toglierti il fiato anche quando gli eventi sono normali, mediocri, una collezione di insuccessi e di delusioni. "Alla fine di che parla questo libro?", mi sono chiesto.
Ogni volta che mi guardo indietro e penso alla mia esistenza e ai momenti che l'hanno definita, non penso alla vera sostanza, a quello che avrei scritto in una cronaca per punti, ma a delle scene di poca importanza che però si sono impresse sulla mia memoria come una camera oscura, e che di conseguenza riesco a ricordare, a raccontare, con colori alterati o con deformazioni, che sono imperfezioni ma anche la letteratura stessa.
La separazione dei miei genitori mi ha sconvolto da ragazzo, ma se dovessi raccontarla mi viene in mente questa scena qui in cui mia madre ascolta una canzone dei Foo Fighters a un volume insensato, e tutto ciò che vi fa da contorno. Se penso alla mia depressione, penso a un giorno in cui stringere una pagnotta in un supermercato mi ha fatto sentire un pezzo di carne senz'anima. E credo che questo funzioni anche coi ricordi belli. Per esempio non saper spiegare un sonetto di Shakespeare, o scoprire, pochi mesi prima della sua fine, che la scuola in cui sono stato così male e che così tanto ho odiato non mi ha impedito di restare accecato da un'elegia di Tennyson, e capire che cosa mi piaceva davvero.
Come si scelgono queste scene per raccontare la vita dei nostri personaggi? Questo non lo so, sarebbe quasi più corretto dire che sono le scene a scegliere noi, perché ci ossessionano nei nostri ricordi, o riemergono all'improvviso, ed è solo provando a raccontarle che ne intuiamo il significato e l'importanza. Per questo, quando guardo il loculo dedicato ai miei nonni, le due date di inizio e fine che vi abbiamo impresso non riescono a dirmi quanto mi mancano come invece lo fa il rumore del frigorifero nella casa della montagna. La casa in montagna dove passavo le estati coi nonni è tuttora in un paesino che si chiama Stoner.
marco vado subito a cercarmelo, la tua recensione non lascia alternative :)