Se la primavera è uno stato mentale, e trova totale realizzazione in quell'aria metallica pesante che c'è quando ci sono i primi temporali tardopomeridiani, quelli in cui il cielo si affolla di nubi alluminio, vento gelido e tramonti lunghi, per me corrisponde al maggio prima della maturità, nel 2006, quando cercavo il modo più indolore possibile per uscire da una scuola che non sopportavo più, cosa che stava cominciando anche a ripercuotersi sulle mie medie da secchione atipico.
Invece una cosa che mi stava piacendo era scrivere la tesina: scegliermi un argomento, esplorare le connessioni interdisciplinari, trovare geniale un'associazione tirata per i capelli, ma soprattutto la ricerca, e l'assoluta libertà di strutturare un pezzo come lo volevo io. Se ci ripenso, era proprio qui la radice della mia sofferenza: a 18 anni sei davvero stanco di svegliarti alle sette e mezza sei giorni su sette, a rischiare un'interrogazione a sorpresa ogni santo giorno perché gli insegnanti non hanno altro strumento che il terrore per farti capire le cose, ad affrontare poi pomeriggi di compiti di cui non vedi né la fine né un fine, ma basarti sempre su "che pagina c'è da studiare per domani", e non "che argomento stiamo affrontando oggi e quali sono le dinamiche che siamo tenuti a conoscere e perché". A 18 anni, appunto, vuoi avere un po' più di controllo su quello che studi, e soprattutto su ciò che fai quando non studi. La quinta superiore è una costrizione fuori tempo massimo.
In questo stadio, a maggio ho trovato curativo lavorare alla mia tesina, comprare libri non consigliati da nessuno, ma che sapevo potevano arricchire la mia ricerca, sedermi sul letto della mia camera ancora condivisa e ascoltare musica che potesse facilitarmi la lettura.
Il libro era In Memoriam di Alfred Lord Tennyson. Il disco era Mr. Beast, dei Mogwai.
Mr. Beast è stato il disco fondativo del mio amore, tuttora in corso, per la musica heavy strumentale. Se diamo per valida anche nella musica la distinzione greca tra comico e tragico, io amo quella che appartiene soprattutto alla seconda, in minima parte alla prima, e certe cose per me neppure sono Musica, sono più incidenti in musica. Il post-rock, o il post-hardcore, per me erano il livello massimo del tragico: una musica che si basa su costruzioni dinamiche, su stratificazioni progressive, elefantiache ed esasperanti, sull'eterno disequilibrio tra pieno e vuoto, tanto più sublime quando inaspettato, tanto meno efficace quando appiattito. I Mogwai erano esattamente questa roba qui: un giro portante, spesso una melodia soltanto, ma quella giusta, la più potente; e attorno giochi sull'altalena, volumi bassissimi e fortissimi, ruvidezza e dolcezza accostate con gusto in modo da non toccarsi mai direttamente, ma sempre tramite un cuscinetto.
In una simile ricetta, instabile come un composto chimico, la voce non poteva esserci. Il canto era bandito, oppure si ritagliava un ruolo da gregario, in un caso del tutto contrario allo standard della musica occidentale.
Ma io, nel maggio del 2006 ascoltavo i Mogwai non perché pensassi queste cose, figuriamoci, le ho capite dopo, arrovellandomici per quasi 15 anni. Ascoltavo quel disco dei Mogwai perché appunto non c'era nessun cantato a distrarmi, e potevo concentrarmi sulla musicalità di ciò che leggevo, e poi di ciò che scrivevo. Allora pensavo fosse solo una questione di concentrazione appunto, ma ho capito poi che troppo spesso mi rendo conto di star leggendo parole che non sento, e di trovarmi a una pagina di un libro senza sapere come ci sono arrivato. Se non leggi con la tua voce, cioè con l’audio, non stai veramente capendo il testo.
La musica non può non centrare in questo. A volte, quando scrivo una frase che suona meglio di un'altra, le persone che lavorano con me mi chiedono come ho fatto, dov'è la regola, dov'è che sono intervenuto, come se dietro ci fosse chissà quale segreto tecnico; quando la realtà è semplicemente che me le sono recitate in testa, e una suonava meglio dell'altra, punto. La lingua è uno strumento che si accorda, e in certi casi aiuta sapere per esempio che volò è una parola tronca, volo è una parola piana e scivolo è una parola sdrucciola, ma non è tanto nel dominare la metrica il punto; e pure la metrica si può studiare in lungo e in largo, da sapere ci sono volumi e volumi di roba, ma per sentire come suona una frase, davvero, basta ascoltarla. È tutto lì.
A volte a leggere certi testi sembra proprio che ci si sia fermati alla dimensione visiva della scrittura, senza fare un test uditivo.
La musica strumentale ha un solo mezzo per comunicare con le parole: i titoli delle canzoni. Sono una via insidiosa, una sola cartuccia per dare una descrizione con il linguaggio universale degli essere umani a una canzone che invece prende vie interpretabili con estrema varietà. Ed è lì che il genere che ascolto io mi mostra come suonano le frasi.
The only moment we were alone, a pronunciarla è una frase impastata di vocali basse, che fa riempire la bocca quasi come se masticassimo un boccone amaro, e la canzone è una suite malinconica.
Ghosts of the Garden City sferra due frustate in corrispondenza delle G, e in effetti il brano è strutturato su due colpi potenti e mortali.
Rano Pano più che un titolo è uno scherzo (i Mogwai, sempre loro, sono anche una band ironica che ama prendere in giro proprio con i titoli, come Hardcore will never die but you will, Coolverine, Don't believe the fife, You're Lionel Ritchie, o anche il loro disco più cupo, che si chiama Happy Songs for Happy People e ha una copertina grigia).
In un certo senso, la musica cantata, con i suoi testi, mi complica le cose, perché alla base di come suona un testo c'è sempre la melodia della musica ad alterare il suono puro delle parole. Nella musica strumentale, i titoli sono sempre scissi dalla canzone che rappresentano, ed è lì che ho imparato ad avvicinarli alla poesia, secondo un meccanismo diverso, ma anche più vicino alla mia persona, alle mie passioni e alla mia cultura.
Nella primavera del 2006 ho scoperto uno dei miei generi musicali preferiti, ho sezionato l'opera di uno dei poeti inglesi più musicali che abbia mai letto, e ho imparato a concentrarmi su come suonano le parole, e a considerarlo non un vezzo o una stronzata esoterica, ma proprio una parte integrante e necessaria dello scrivere bene.
La tesina, quella, faceva schifo.