Quello che ho scritto fa schifo a tutti tranne me.
Un pensiero su come venire a patti con i feedback di chi non fa il nostro lavoro.
Vi ricordate voi quand'è stata l'ultima volta che avete fatto vedere a vostra mamma un disegno con in cuor vostro la sicurezza che vi avrebbe detto "è bellissimo"?
Ci dev'essere stata un'ultima volta, per forza, solo che la differenza in molti casi la fa l'inconsapevolezza, mentre succede, che sia l'ultima.
Perché quando siamo bambini la nostra creatività ha bisogno solo di gradini bassi e solidi su cui arrampicarsi, non di ostacoli da superare, e quando portiamo il nostro disegno alla mamma vogliamo sentirci dire che siamo bravi, bravissimi, che non avremmo potuto fare meglio. Anzi, che solo noi avremmo saputo fare le cose così bene. Fa quasi male oggi, quando seduto sul mio telo in spiaggia incappo in scene di bambine che fanno dei tuffi del tutto sghembi, brutti come solo la coordinazione infantile sa essere; e però prima di eseguirli pretendono l'attenzione della mamma che è lì a pochi metri, e la mamma magari con una mano tiene il salvagente in cui c'è il secondogenito, ancora allo stadio dello strillo senza parola, con l'altra si sistema il cappello di paglia che la scherma dal sole, e non guarda il tuffo della figlia, perché è identico al tuffo di prima, e di due minuti fa, e di mezz'ora fa. Però con la precisione di un truffatore si fa trovare lì quando la bambina lava via il sale e i capelli dagli occhi, li riapre, e aspetta il suo Bravissima. "Bravissima amore".
È una cosa bella, quando scriviamo, pensare a chi leggerà, e immaginarci che adorerà ogni parola, ogni immagine e ogni idea. È una cosa bella pensare che troveremo noi le parole giuste per dire qualcosa che qualcun altro ha sentito ma non è mai riuscito a esprimere. Studiamo per farlo, ci esercitiamo. A certe persone esce più naturale che ad altre, per tanti motivi che non ha senso elencare qui, ma io una mia idea ce l'ho e la racconterò più avanti. Ma in qualche modo arriva un momento in cui decidiamo di investire le nostre energie sulla scrittura o meno, e lo facciamo in un modo semplice: scrivendo, scrivendo di più, scrivendo anche quando non ci viene chiesto di farlo.
Due cose non mi ricordo della mia vita. Cioè, sono molte di più, ma queste due in particolare sono quelle di cui voglio parlare ora: il momento in cui ho fatto questa scelta di calarmi nella tana del bianconiglio del mio scrivere, e l'ultima volta in cui ho chiesto a mia mamma di guardarmi con la certezza di essere il migliore, non per lei, per il mondo, che poi era la stessa cosa al tempo.
Sono due cose che non sembrano collegate, ma lo sono perché scrivere passa anche per il far leggere, dare le parole alle persone, ed esporsi quindi a una loro reazione. Una reazione positiva, in vari livelli di compiacimento, oppure una reazione negativa, in vari livelli di umiliazione; e poi c'è la reazione più dolorosa, quella dell'indifferenza, che nasconde nel suo concetto stesso la sua beffa: è "qualcosa" solo per chi la subisce, non per chi la perpetra, il contrario di un amore non corrisposto.
Chi scrive a un certo punto, se vuole che la scrittura cresca, deve fare questo salto nella nebbia che è pubblicare. Un atto che per certe persone fa più male di strapparsi un lembo di carne, più paura di un incubo ricorrente. Ed è lì che ti rendi conto che la mamma non c'è più.
È un inganno feroce quello dell'infanzia, delle bugie costruite per farti andare avanti, per farti continuare a crederci finché ne hai bisogno, perché non hai gli strumenti per sopravvivere a un inciampo. Ma prima o poi cade.
Prima o poi ci capita che qualcosa che scriviamo lasci qualcuno freddo, indifferente, critico, con le peggiori o le migliori intenzioni. Quando scriviamo per lavoro capita con una frequenza sempre più alta di quella che saremo mai programmati per tollerare.
Nel frattempo è successa un'altra cosa però: abbiamo investito sulla scrittura, è una nostra competenza e quindi è diventato un nostro compito, e le nostre parole finiscono sotto il giudizio di persone che quella competenza non ce l'hanno.
Se l'inganno più feroce dell'infanzia è il Bravissima, quello più feroce dell'età adulta è il De Gustibus. È il tappo nell'imbuto, dove noi ci arrendiamo al fatto che quello che piace a noi non piace a qualcun altro, e dove chi ci legge si arrende al fatto che abbiamo fatto tutto bene, ma comunque quello che è scritto "non parla".
Scrivere è un impulso della testa e del cuore, leggere è un colpo alla pancia e al timpano. È facile dimenticarsi nel passaggio tra un'estremità e l'altra che le parole sul foglio sono state in organi diversi tra chi scrive e chi legge. Se lo dimentica chi scrive, che si ricorda perché ha usato proprio quel ritmo, quei suoni e quel concetto, ma non lo sa spiegare. Se lo dimentica chi legge, perché non scrive.
La creatività si regge con una sola gamba su questo equivoco endemico; i testi, le immagini, parlano alla pancia delle persone, ed è la pancia che decide se quello che vede va nel cesto delle cose belle o delle cose brutte. Per il fatto che saper disegnare e saper scrivere, per alcune persone che non hanno capito, equivalgono a sapere tracciare un segno su un foglio. Una cosa che sa fare anche un bambino, a cui la mamma ha sempre detto Bravissimo Amore.
Non c'è niente di consolatorio nel dover accettare che non potremo mai piacere a tutti, e per quanto possa farci male dobbiamo anche perdonare la mamma per averci mentito per tutti i nostri primi anni, perché in alcuni momenti della nostra testa, una bugia è la cosa migliore che possa succederci.
Quando ho presentato dei testi per il mio lavoro e questi non sono piaciuti a persone che lavorano con me e che non li saprebbero fare non dico uguali, ma nemmeno simili, le prime volte mi sono rintanato in quest'ultima considerazione, e me la sono presa a morte. Mi ripetevo
"ma lo sanno loro quanto ci ho lavorato? Quanto ho pensato alle parole che ho scelto, quanto ho lasciato che maturassero le mie idee? E adesso dovrei ricominciare tutto daccapo? È la mia parola contro la loro"
e altri pensieri che in una logica di suddivisione del lavoro e di ultima parola al più competente in materia ci sembrano giusti. È lì il tappo nell'imbuto, ridurre il tutto a una questione di gusto è comodo per chi legge e non ha voglia di pensare a ciò che ha letto, ma anche di chi scrive e non ha voglia di capire perché ciò che ha parlato a noi non ha parlato a qualcun altro.
Ho smesso di pensare queste cose. E non perché ho smesso di scrivere e presentare cose che poi non sono piaciute. Ma ecco, le cose che non ricordo non sono due, sono tre: non ricordo quando ho smesso di pensarle. Non ricordo l'ultima volta che me la sono presa per un mio testo che non è piaciuto, ma mi ricordo che, rispetto a quando succedeva, sono capace di spiegare le mie scelte molto meglio, in maniera molto più convincente, superando ostacoli sempre più larghi. L'ultimo ostacolo, il mostro finale è il De Gustibus, il "non mi piace e basta"; quello non so ancora come si superi, ma è pur vero che ogni scala ha un ultimo gradino.
Ripenso alla bambina che ho visto in spiaggia, e r.ipenso ai disegni che facevo da bambino, a come la bambina facesse tuffi tutti uguali, e a come i miei disegni fossero brutti, più brutti della media di un bambino. È probabile che quella bambina un giorno smetterà di essere bambina, e così smetterà anche di tuffarsi. Io, dal canto mio, molti anni fa ho smesso di disegnare. Eravamo entrambi bravissimi.
E' effettivamente dura venirne a patti inizialmente. Anche in fotografia. Alcune delle foto di cui vado più fiera sono state snobbate con un " ah ahn... " . Ma con il tempo ho imparato a consolarmi pensando che chi non ci è dentro certi aspetti non li non potrà cogliere. E' normale, mi dico.