La scrittura è veleno e antidoto.
Vi racconto come si fa a sostenere una conversazione subdola e difficile.
Pochi giorni fa ho avuto una telefonata brutale con una persona, e quando ho messo giù mi sono trovato a riflettere sulla potenza delle parole, e in particolare delle strutture in cui vengono inserite.
Questa persona con le parole è molto brava, nonostante non sia propriamente il suo lavoro. Le sa calibrare, svuotandole, cambiandole di segno a seconda del tempo che impiega a inserirle nella frase. Ha un dono, quello di riuscire a congelare la frase, non nello scritto ma nel parlato, una cosa di una difficoltà estrema; in sostanza quando ci hai una conversazione prende il controllo totale delle tempistiche, e devi stare alle sue. Quindi riesce a interromperti senza che tu ti renda conto di esserti interrotto, ma al contempo spezzare il suo discorso è impossibile senza fare una brusca forzatura, perché la sua prosa parlata inizia a girare a mulinello come un aereo da guerra che prepara un assalto in picchiata.
È un'abilità che richiede un dominio assoluto della sintassi, costruendo un labirinto di subordinate prima di concludere la proposizione principale, e nascondendo in questo labirinto il nocciolo della comunicazione, che non è affatto detto si trovi nella principale: il suo vero messaggio può essere anche un semplice aggettivo, messo lì quasi come ornamento e che invece è il vero senso di tutta la telefonata, di tutta la settimana, probabilmente di tutto un rapporto.
In questa sintassi poi c'è anche l'accuratezza del lessico, che a volte è volutamente trasandato, come un look casual che di casuale non ha proprio nulla; altre volte è ampolloso, fino a svuotarsi di puntualità ma non di efficacia. Se tutto vuol dire tutto, allora nulla vuol dire nulla. Ma il saldo controllo che questa persona ha su tutte le variabili rende le conversazioni delle sabbie mobili pericolose, in cui muoversi troppo può essere letale.
Alle persone con cui lavoro e con cui mi trovo a condividere tecniche e pensieri di scrittura racconto sempre che considero la scrittura né più né meno che un'arma.
È una parola forte, perché le armi si usano per offendere e difendere, ma in entrambi i casi il presupposto è lo scontro, il conflitto. Un discorso si chiama anche disputa, e una disputa è tale perché prevede un vincitore e un vinto, e saper usare le parole, padroneggiare la scrittura e in questo caso anche l'oralità rientra nel ricorrere a un arsenale.
Molte volte mi sono reso conto che se in un discorso, orale o scritto, possedevo maggiori competenze del mio avversario, avevo un vantaggio quasi incolmabile, quasi come la polvere da sparo contro la spada. Non uso a caso questa similitudine, perché le parole sanno colpire anche a grande distanza, sia geografica sia ideale, come quando leggiamo una frase sul muro di una città in cui non siamo mai stati e ci sentiamo immediatamente in connessione con una persona che non conosciamo.
Ho iniziato dicendo che la telefonata è stata brutale. Potete immaginarvi che ci siano state delle urla, delle parolacce, dei pianti... niente di tutto questo, anzi l'esatto contrario. A sentirla da fuori invece è stata una telefonata cordiale, quasi allegra, con battute, scherzi, toni solari; è appunto stato lo stridore dei toni e dei contenuti con l'uso che è stato fatto delle strutture e della sintassi, sia da parte mia che da parte dell'altra persona, a trasformarla in un momento di subdola violenza verbale.
Cosa ci siamo detti? In sostanza, io ho comunicato a questa persona un no a una richiesta che mi aveva fatto qualche giorno prima, e per tutta risposta me l'ha fatta pagare, in parte dandomi dello sprovveduto, in parte minacciandomi.
Quando ho riattaccato ho immediatamente sentito queste ferite bruciare, ed è stata una fortuna, nonché un testimonianza del fatto che padroneggio l'arma del discorso non bene come quella persona, ma abbastanza da rendermi conto di quando un morso che ricevo ha iniziato a inoculare del veleno nel mio corpo, e a iniettare subito un antidoto.
Quella telefonata sarebbe stata, in altri tempi, un discorso che avrei chiuso prima con un senso di compiutezza ma anche di disorientamento, che poi sarebbe montato in una sensazione di instabilità, e poi di smarrimento, fino a tramutarsi in dolore e rabbia. A quel punto sarebbe stato troppo tardi per l'antidoto. Le ferite si sarebbero aperte solo allora, e risalire alla vera origine di quel male sarebbe stato complicato.
Non esiste una vera propria strategia di difesa di fronte a occasioni come questa. La cosa più utile da fare è capire che una figura retorica, se è dove si trova, lo è per un motivo, che molto spesso ha poco a vedere con lo stile e molto con la psiche di chi la usa. Chi usa tanto la litote sta cercando di far passare sotto traccia un difetto, o non è altrettanto sicuro di ciò che ti sta dando per certo. Chi usa tanto le perifrasi non ha cuore di dirti le cose come stanno, perché se si entra nel piano troppo emotivo perderebbe il controllo della conversazione. Chi usa tante iperboli sa di essere osservato, e vuole fare uno show. Chi usa tante endiadi pensa di aver meno da dire di quanto sarebbe necessario.
Conoscere questi meccanismi aiuta ad avere informazioni durante la conversazione che non risultano dal contenuto, ma dalla forma, e dà un vantaggio sostanziale.
Ma in alcuni casi, porta anche a una soluzione drastica; se ti rendi conto che qualcuno sta cercando di manipolarti, che ha una proprietà di gestione del tempo della conversazione di fronte alla quale tu soccombi, ti rimane una carta, una via d'uscita che magari non ti renderà troppo fiero della tua retorica, ma ti risparmia dal peggiorare le cose, con mosse scacchistiche troppo audaci che ti fanno trovare poi circondato: dire "Sì, certo, chiaramente, sì lo so." Dare ragione, senza che questo porti a un approdo.
Una persona che tenta di manipolarti non vuole avere ragione. Vuole che tu non abbia più appigli, e che questa mancanza si tramuti o in una rottura violenta o in un completo abbandono alle sue parole. Invece portare il discorso in una secca che gli dà una ragione di cui non sa cosa farsene neutralizza l'attacco, come quando si tenta di accendere un fiammifero bagnato.
Rinunciare al dialogo, fingere di dare ragione, fingere di sapere a volte aiuta a concentrarsi su quella cosa che va fatta tempestivamente, prima che il veleno entri in circolo: rintracciare quell'aggettivo violento che ha fatto così tanto male e sottolinearlo. Lì sta il dolore. Tutto il resto è un'impalcatura retorica, che si può studiare, e quando non serve più, smontare.
Se vi va, nelle prossime uscite possiamo smascherare alcune armi di questo arsenale. Se potete, tenetevi queste abilità per difendervi, usatele per attaccare solo per un lettore che non conoscete, ma mai con qualcuno a cui volete bene.