Le cose che non scrivi
Come fanno certi racconti a lasciarci una sensazione di vuoto così forte, dopo averli letti?
In uno dei più strazianti racconti di Carver, "Una cosa piccola ma buona", un pasticcere che ha ricevuto un'ordinazione per la torta di compleanno di un bambino di otto anni, tempesta di chiamate minatorie la famiglia che non l'ha mai ritirata e pagata, ignaro che nel frattempo il bambino è morto, investito da un'auto.
È un racconto costruito dal punto di vista della madre, in ordine cronologico: la prima scena è l'ordinazione della torta, in cui veniamo subito a sapere che il pasticcere è un tizio burbero, non sgarbato ma nemmeno gentile, con un'aria ostile e seccata; una persona che ti mette a disagio. La scena successiva è quella in cui il bambino tornando da scuola al lunedì, il giorno del suo compleanno, viene investito, e sul momento si rialza (ma è bellissima la descrizione di quei pochi secondi in cui è a terra, rantolante, pare quasi di vederlo e fa una tenerezza spaventosa), poi torna a casa e poco prima della festa, programmata per il pomeriggio, si sente male e va in ospedale.
Tutta la parte successiva del racconto è una costruzione angosciosa sui genitori che provano a ottenere informazioni da medici che non ne danno, e che continuano a rassicurare sul fatto che il bambino sta solo dormendo, non è in coma, ha solo una microfrattura alla testa e uno shock che lo ha indotto in uno stato di profondo riposo.
Carver di lì in poi si dilunga in pagine simili a quella giostra per bambini in cui ci si mette l'uno di fronte all'altro alle estremità di un palo e ci si spinge per saltare e far saltare. L'ansia che le cose non vadano a posto monta sempre di più fino a che il medico di turno fa il controllo e dice che va tutto bene. Allora l'ansia diventa rassicurazione ma anche incomprensione. "Se mio figlio sta bene, perché non si sveglia?".
In mezzo, ci sono le chiamate del pasticcere, incazzato, che non ci sta a farsi fregare così. Ha fatto una torta, l'ha glassata come voleva la madre, ci ha scritto un nome sopra, che se ne fa adesso lui? Non sono scherzi da fare.
In tutto il racconto le telefonate sono così brevi, così non comunicanti e nel momento così sbagliato che le due parti non riescono mai a capirsi, al punto che la famiglia, che si è totalmente scordata di non aver ritirato la torta, nemmeno capisce che dall'altro capo ci sia il pasticcere, e il pasticcere dal canto suo non si rende conto di essere nel mezzo di un dramma.
Verso la fine del racconto, il bambino muore. Il pasticcere chiama un'unica volta, fino a che la madre non si ricorda della torta e ricollega tutto.
Nell'ultima scena del racconto, il padre e la madre, stravolti per la morte del bambino, vanno in pasticceria di notte, quando il pasticcere, con la bottega chiusa, si sta preparando al giorno dopo. All'inizio il clima è teso e rancoroso da entrambe le parti, poi quello che è successo viene fuori.
- Mio figlio è morto, - disse Ann in tono piatto, freddo, definitivo.
Di lì alla fine della narrazione, succede la cosa piccola ma buona che indica il titolo. Il pasticcere li fa sedere, e offre loro una tazza di caffè e tantissimi dolci.
-Ecco, sentite che profumo, - disse il pasticcere, spezzando una pagnotta di pane scuro. - Questo pane è un po' pesante, ma molto nutriente -. Ann e Howard lo odorarono, poi lui glielo fece assaggiare. Sapeva di melassa e cereali integrali. Continuarono ad ascoltarlo. Mangiarono tutto quello che poterono. Inghiottirono quel pane scuro. Sotto le batterie di luci fluorescenti sembrava giorno. Rimasero lì a parlare fino all'alba, un chiarore pallido e intenso che entrava dalle vetrine, senza che venisse loro in mente di andarsene.
Questo finale mi ha sempre lasciato con un senso di apnea quando chiudevo il libro, e tante volte mi sono chiesto il perché, sia con questo che con tutte le altre pagine, dischi e quadri in cui mi capita. È quella sensazione che si prova quando un'opera ti lascia spazio, nel senso che non chiude tutte le linee e tutti i puntini.
La prima cosa che ti chiedi è come possa succedere una cosa del genere, come possa capitare di passare la prima notte in cui tuo figlio non c'è più nel retrobottega di un pasticcere a mangiare cornetti appena sfornati, fino all'alba. La risposta che ti dai è che forse non esiste una notte tipo per un genitore che ha appena perso un figlio, un codice o un'etichetta che ti imponga come è sensato comportarsi dopo un lutto così, e quindi di conseguenza nemmeno passarla come la passano Ann e Howard sia poi così strano.
La seconda cosa che ti chiedi è allora, se questa cosa è annoverabile tra il possibile, come sia venuta in mente all'autore proprio una cosa del genere. Ma ti rendi conto che il problema non sta lì. Non è nell'inventiva dell'autore, nella storia, che va ricercato il motivo per cui una lettura del genere è in grado di toglierti il fiato. Anche perché non sono le scene chiave, quelle descritte in maniera cruda ma esplicita, senza contraddittorio, a dare quella sensazione. Sono scene come il finale, in cui per ore non succede praticamente niente, o non sappiamo cosa succeda.
A me sembra che "Una cosa piccola ma buona" sia un racconto sull'incapacità di comunicare e di restare. I medici insistono continuamente nel convincere i genitori, che piantonano il figlio, ad andarsene, prendersi una pausa, rilassarsi a casa o fuori dall'ospedale. I due non pare abbiano chissà quali problemi, ma fra di loro fanno fatica a scambiarsi lo sconforto, paiono viverlo in maniera separata, come se non fosse affare dell'altro.
L'autore però mi lascia intendere che la situazione alla fine si sblocchi, nonostante sia la cosa più lontana da un lieto fine. È alla fine che Ann, Howard, con l'aggiunta del pasticcere riescono a parlare, a comunicare, capirsi e in fin dei conti a restare, a non sentire alcun bisogno o alcuna pressione di andare via.
Carver non la dice da nessuna parte questa cosa, se ne guarda bene dal dare questa chiave interpretativa. Il sospetto è venuto a me per il modo in cui indugia sui giorni in ospedale, e sulle interazioni tra la coppia e i medici, sempre uguali, disperatamente prive di senso.
Non c'è nessuna morale alla fine della storia, nessuna battuta programmatica. L'ultimo dialogo è "Ecco, sentite che profumo", mentre di tutto ciò che si dicono i tre non sappiamo nulla, ma sappiamo che è un dialogo talmente pieno, confortante e dolce che dura ore, e prima di esso si interrompe la narrazione stessa.
Questa storia improbabile, eppure verosimile, si regge sull'immaginarci due coniugi stravolti dal dolore che si ingozzano di dolci senza neppure capire il perché, in un momento in cui non hanno la forza di porsi una domanda così atroce.
Tutto questo non sta scritto da nessuna parte. Il motivo per cui a me (ma a voi magari no) questa storia lascia sempre con la sensazione di dover prendere aria sta in ciò che non è scritto, quella domanda che aleggia alla fine nella mia testa
"e tu da quanto non comunichi con qualcuno, da quanto non ti fai capire, da quanto non scegli di restare in un discorso?".
Però per questo non-scritto nel testo va lasciato lo spazio. Non letteralmente, ma evitando di esplicitare certe cose. Evitando di spiegarci perché Ann e Howard mangiano in un momento in cui lo stomaco dovrebbe essere chiuso. O di spiegarci cosa si dicano per sei ore in quel retrobottega.
Scrivo di musica da più di quindici anni, e col tempo ho abbandonato le scritture più classiche che mi davano un senso di noia e inutilità (quelle in cui si valuta tecnicamente un disco, le cosiddette "recensioni") e ho provato un approccio diverso, non perché fosse una nicchia da coprire, figuriamoci, a volte nemmeno io so che cazzo sto facendo o scrivendo. Ma perché tanti dischi mi provocano un bisogno di spiegarmeli. Di spiegarmi perché un determinato passaggio mi provoca sempre la stessa emozione, e lo fa in un modo che riesco a prevedere ma che ogni volta mi coglie impreparato. È un suono che non riesco a decifrare, una pausa che non so capire, una parola pronunciata in un certo modo. Ho anche fatto una playlist che raccoglie alcune canzoni (poche) in cui c'è un momento come questo. Insomma il nocciolo della questione sta sempre in un qualcosa che non vedo, che non sta lì davanti, che non si prende tutta la scena, come fa la trama in un racconto, ma che sta nello stile, e nell'equilibrio tra il pieno e il vuoto.
Sono cresciuto suonando la batteria, e ascoltavo la musica che allo strumento lasciava più spazio: il punk, l'hardcore, il metal; tempi veloci, poca dinamica, tanto casino, tante rullate e passaggi complicati. Per me la musica o era estrema o non era musica. E mi chiedevo "ma tutti quei batteristi che fanno pop come fanno a farselo piacere di fare sempre la stessa cosa per tutta la canzone, che gusto ci trovano, dove sta il bello il tenere il tempo?".
Poi mi sono dato una risposta, ma prima ho dovuto crescere, e farmi un sacco, ma veramente un sacco di domande. Se tu, che stai leggendo, sei qui in fondo, vuol dire che ad alcune ho trovato anche risposta.
L’edizione di Una cosa piccola ma buona su cui ho basato questa puntata è in Cattedrale. Lo trovate qui:
Ci sono dei video che spiegano in maniera analitica, poco poetica ma a volte davvero straordinaria l’effetto di cui parlo qui sopra. Qui c’è un batterista che spiega perché Drops of Jupiter dei Train è una canzone complicatissima alla batteria, senza sembrarlo.
Qui invece un noto produttore spiega come fa All the small things a suonare così enorme nel ritornello.
So che arrivo tardi, ma ho guardato finalmente Inside di Bo Burnham. Per farlo ho aspettato che la pandemia e il lockdown fossero digeriti. Ho detto digeriti mica finiti. Devo dire la verità, mi ha distrutto, e disturbato anche in certi casi, sia per la lucidità con cui affronta le cose, sia per questa canzone, che affronta il panico sociale come non ne avevo mai sentito parlare. Ah, anche lì c’è un momento di quelli di cui ho parlato sopra la newsletter, vediamo se capite a che minuto.
Sabato 13 novembre, che era l’anniversario del Bataclan, sono andato al mio primo concerto dopo la pandemia, toccandomi i coglioni. Ho fatto bene, perché sul palco ho visto una band italiana di cui mi sono innamorato. Si chiamano Shelt, e fanno quell’indie rock americano con venature folk che sembra dire tutto all’imperfetto e che fa un male di cui ti accorgi dopo. Il disco si ascolta su Spotify e si compra su Bandcamp.
Se vi manca il mare anche in stagioni come questa, la cosa migliore che potete fare è iscrivervi alla newsletter di Mattia Meirana.
Alla prossima, grazie di tutto.
"Una cosa piccola ma buona" è uno dei miei racconti preferiti (non di Carver, in assoluto) e gli hai davvero reso giustizia, bravissimo!