Non devi prendere sul serio quello che scrivi
Un consiglio per iniziare con le scritture private, e per affrontarle senza che siano un peso.
"Cosa stai scrivendo?" - "Non lo so" mi sono trovato a rispondere tante volte, con una risposta che poteva sembrare evasiva, come quando abbracci il quaderno su cui sei ricurvo con il palmo della mano che scrive stretto sulla pagina che hai già impresso, pronto a chiuderlo come una trappola per topi se qualcuno ti si avvicina.
Però tante volte davvero non sapevo cosa stavo scrivendo, avevo solo bisogno di tenere allenata la testa.
Quello che oggi va di moda chiamare "journaling" rientra nel grande insieme ancora più di moda del self-improvement e del self-help. Se come me siete stati risucchiati da quel grande incubatore di zucchero filato che è l'algoritmo YouTube lo sapete. Videomaker freelance sulla quarantina che riempiono i loro canali visitatissimi di tirate su quante ottime abitudini di routine abbiano, di come ogni secondo del loro tempo sia prezioso, ben impiegato, ottimizzato, fino a farci dubitare persino del loro essere persone. In queste filosofie di vita proclamata come lenta, ma che al contempo non accetta imperfezioni e arresti, il journaling e la sua estensione all'estremo, le "affirmations" sono dei trend che spesso si confondono con l'imparare a usare le parole.
Tenere un diario è un'abitudine vecchia quanto lo scrivere stesso, ma è una cosa che ha a che fare più con il tempo che con la scrittura. I capitoli corrispondono ai giorni, e le parole e le frasi cominciano a ricalcarne ciclicità e la difficoltà di articolare un discorso che abbia un respiro oltre al qui ed ora. Un diario è una cosa serissima, ma è l'illusione di raccontare la storia della nostra vita, quando raccontiamo a nessuno un evento che non ha inizio o fine.
Le affirmations invece sono un prodotto deviato dell'ansia iperproduttiva. È una forma di training autogeno che ci impone di mettere per iscritto il livello più perentorio del buon proposito. Quando ci riduciamo a imporre a una pagina di fare da tramite tra l'ideale che vorremmo vedere in noi e ciò che realmente sentiamo non facciamo che scavare una frattura ancora più profonda tra i due estremi. Non è un caso se le affirmation sono al centro di una delle pagine parodiche più riuscite degli ultimi anni su Instagram, in cui quest'ansia di essere la migliore versione di sé stessi unita a un'estetica pacchiana mette a nudo la nostra disperazione di esseri umani infelici.
Ho comprato decine e decine di taccuini nella mia vita, e un'altra buona metà mi sono stati regalati. Allo scrivere a mano, su carta, riservo i momenti iniziali di ogni processo che affronto e che parla della scrittura. Trovare un'idea ad esempio, un'idea che spesso si deve ridurre a una parola sola, quella giusta, fra i milioni di parole esistenti, e i miliardi di quelle ancora non esistenti a cui spesso si deve ricorrere. Oppure la necessità di far uscire un ragionamento, un rompicapo che mi blocca il pensiero. Tante volte mi sono detto che avrei destinato quei taccuini al tenere un diario, a darmi una regolarità, e sono sempre andato a sbattere su una contraddizione: la mia mente non riesce a legare la scrittura al tempo; il concetto di diario è per me troppo difficile da accettare, perché scrivere è l'unico modo che conosco di sottrarmi alla tirannia del tempo.
Perciò quello che succede quando scrivo delle scritture private, quelle che si iniziano senza sapere dove si vuole andare, è che seguo una frase, un concetto o un pensiero che mi suonano in testa, senza pormi il problema di cosa significhi, come continuerà, dove si spegnerà.
Il risultato sono pagine a volte datate, a volte no, che rileggo molto raramente; non le scrivo perché mi possano essere utili in futuro, le scrivo perché nel momento in cui lo faccio devo fare spazio, e vedere dove va un'idea.
È una forma di scrittura tra le più libere e indisciplinate quella che io chiamo scrittura privata, che si affida ai quaderni e alla penna, e che per funzionare deve fare con noi il patto di non avere uno scopo, di non salvarci da niente, di non essere per forza tempo ben impiegato. È insomma l'esatto opposto di quello che fanno gli YouTuber che guardo. È non sapere cosa si sta scrivendo, e perché, e se lo si rileggerà mai. È farlo senza assumersi nessuna responsabilità del senso, della correttezza, della sopportabilità di ciò che esce dalla testa.
Quando impariamo a perdere le battaglie contro chi vorremmo essere su una pagina, il vantaggio è che ci ritroviamo con tantissimo materiale grezzo, e lì allora può (può) subentrare la regola, lo studio, la struttura, la voglia di far uscire qualcosa, nella speranza che torni a utile a qualcuno come è tornato utile a noi.
A volte ho avuto paura delle cose che mi sono sorpreso a mettere su un quaderno, e ho creduto di essermi messo in un guaio. "Se l'hai scritto lo pensi, se l'hai scritto è vero". Però se vogliamo raccontare e raccontarci, se abbiamo deciso che la scrittura è il modo in cui facciamo ordine nella nostra testa, dovremmo imparare a non prendere troppo sul serio il narratore che c'è in noi, e imparare a essere davvero liberi nelle scritture private, lasciando spazio anche a ciò di cui ci vergogniamo, che ci fa stare male o che semplicemente per noi non ha senso perché non lo riconosciamo. Per nascondersi, fingere, sentirsi in colpa e rifiutare pensieri sbagliati c'è tutto il resto della vita.
"Scrivere è l'unico modo che conosco di sottrarmi alla tirannia del tempo". Grazie per i tuoi scritti, a ogni newsletter mi porto a casa qualcosa di bello!