Ehi ciao, questa è mi.minore.
È una mail che ti arriva un paio di volte la settimana, in cui provo a entrare nella testa di chi scrive, o vuole scrivere ma non ci riesce, lo fa per lavoro o lo fa per diletto. Stai leggendo la prima puntata. Magari un giorno varrà qualcosa.
"Perle ai porci" e "Piove sempre sul bagnato" sono concetti che si applicano in casi diversi ma che io tendo a confondere sempre, perché in qualche modo mi sembrano imparentati. Il punto è che li uso per coprirne uno che credo non esista, o se esiste non fa parte del mio vocabolario popolare, ma è l'espressione che userei per dire che certe persone, anche del tutto normali per quanto riguarda la distribuzione della fortuna, o della ricchezza materiale, o delle dotazioni psichiche o fisiche, per uno strano allineamento degli astri sperimentano una concentrazione di culo davvero esagerato in un singolo ambito, o momento della loro vita, anche se non sono affatto pronti ad accoglierlo, gestirlo, o addirittura non lo meritano.
Se esiste un modo di esprimere questa cosa in maniera simile a "perle ai porci" o "piove sempre sul bagnato" fatemelo sapere, che me la incido sulla tomba, o magari sulla custodia degli airpods. Perché anche se un po' me ne vergogno io ho sperimentato in prima persona questa cosa.
Sono stato assunto (in prova) come copywriter senza neppure sapere cosa fosse, un copywriter. Questo è successo per diversi motivi concatenati tra loro che hanno colto di sorpresa anche me, tanto che non ho ben capito neppure io cosa sia successo esattamente in quei primi giorni del 2014, fatto sta che mi sono ritrovato con una job title che percepivo come "una figura che scrive, però nella pubblicità", e questo era tutto ciò che sapevo. Non mezza nozione di marketing. Non mezza nozione tecnica e terminologica (bodycopy, head, quelle cose lì). Nessuna conoscenza dei maestri del mestiere. Niente nel mio portfolio. Nessuna gavetta.
Chiariamoci, non ho ottenuto quella posizione imbrogliando a un concorso pubblico, né sono stato assunto da una persona completamente fuori di testa in vena di regalare stipendi. Quando ho iniziato io la comunicazione di brand sui social network era ancora una cosa che faceva strabuzzare gli occhi, per alcuni inutile, per altri una moda passeggera, ma comunque fosse gli adulti non se ne occupavano, i ragazzini come me avevano quindi possibilità di forgiarsi di titoli altisonanti come "copywriter", ma poi essenzialmente ciò che facevi era scrivere degli status, non il tuo personale Metti un tigre nel motore che sarebbe poi finito nei saggi di comunicazione dei decenni a venire.
Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. "Mi sono trovato", perché certo, sì, la posizione l'ho cercata, ma sapevo solo fino a un certo punto cosa stavo facendo.
Non voglio farla troppo semplice, ma con buona approssimazione era tutto qui: sapevo scrivere piuttosto bene perché a scuola avevo incontrato le professoresse giuste, perché poi di mio avevo scelto l'Università giusta all'indirizzo giusto, e allora ho cercato un lavoro che fosse disposto a pagare per l'unica cosa che sapevo fare, e invece che cercarlo nelle case editrici, nei giornali, l'ho cercato su internet. Perché da anni, l'unico posto in cui scrivevo e mi misuravo con chi leggeva era quello.
Sarà quindi stato uno dei primi venti giorni di lavoro quello in cui me ne sono venuto fuori con il mio primo concept di comunicazione. L'agenzia era piccola, ero forse il decimo assunto della sua storia, l'unico con un bagaglio formativo come il mio, insomma l'unico copywriter, con le stesse logiche del figlio unico: un sacco di attenzioni, il rischio di uscire viziato, la possibilità di sbagliare ma anche l'impossibilità di farla passare per colpa di qualcun altro, tanto spazio di manovra, tantissimo horror vacui.
Un brand di yogurt voleva un'espressione, un'idea verbale che raccontasse il modo in cui il suo prodotto era in grado di costruire un rapporto al limite del pornografico con chi lo assaporava, amplificando le sensazioni, facendo deflagrare il gusto ma anche tutte le immagini visive e uditive che dal gusto prendevano forma. È un processo che non riesco a raccontare meglio di così: bisogna immaginarsi del fumo, del vapore, che rappresenta qualcosa che non possiamo vedere, e a un certo punto vederlo colorarsi, prendere forme riconoscibili, solidificarsi, assemblarsi un po' come quando ci sembra che una nuvola assomigli all'Italia, alla Gran Bretagna, o al Giappone.
In quel momento ho sentito su di me una responsabilità, che non andava a gravare sul mio cervello, ma sul mio bagaglio. Per me, appena arrivato, era una questione di aprire la mia valigia e guardare se avevo portato con me un pezzo di ricambio che poteva andare bene per quel concept. Insomma, da copywriter appena assunto, che di comunicazione nella realtà non sapeva un cazzo, ho fatto la cosa più semplice, diretta, e anche più stupida che potessi fare: aggrapparmi al lessico.
-Perché un copywriter sarà questo, -mi dicevo - sarà quello che il dizionario ce l'ha più lungo degli altri.-
E quindi, ecco, è successo che il primo concept che ho partorito nella mia carriera è stato "Soliloquio estatico".
Non credo ci sia bisogno di dire che le stesse persone non pazze che mi hanno assunto non sono altresì state così pazze da pensare che andasse bene, e che il cliente non è mai arrivato a posare gli occhi su una cagata del genere, così presuntuosa, così fuffosa, così insignificante e persino refrattaria per chi da uno yogurt vuole solo che sia buono, e magari che la carta del barattolino si stacchi lasciando perfettamente intatta la pellicola di yogurt che di solito vi si attacca sopra, ma non ha nessuna voglia di trovare parole difficili scappate da trattati o da articoli scritti male ma con sforzo.
E io ero vergine di comunicazione, ma non di scritture ampollose. Perché la storia del corso di scrittura creativa che ho frequentato ve la racconto un'altra volta, e forse anche quella delle recensioni musicali insopportabili di cui ho fatto incetta in vita mia. Fatto sta che la scrittura ampollosa, quella dei ghirigori, delle parole difficili e dei concetti eterei io già in quell'epoca la detestavo. Ma cosa fai quando ti prende la sindrome dell'impostore, quando il panico di dover dire "cari miei superiori, io questa cosa non ho la minima idea di come si faccia" ti assale?
Ecco, in quel caso io ho dimenticato la questione, che pure conoscevo, del mittente, del messaggio, del destinatario, del medium, del linguaggio, e ho pensato invece "mi hanno assunto perché so bene l'italiano, adesso dimostro loro che il Devoto Oli l'ho letto tutto, fin nelle sue pagine più oscure".
A memoria non ho mai più usato una parola difficile per questo tipo di richieste. Mi sono basato su un semplice sillogismo, anche solo per definire il campo di difficile, un concetto che per il lessico è piuttosto soggettivo: se non ti accorgi che stai usando una parola difficile stai scrivendo senza farti domande, che è come muovere il volante col motore spento. Se invece ne sei del tutto consapevole e usi una parola difficile per impressionare qualcuno non sei colto, sei un coglione. E siccome certe cose sono sempre in coppia, io quella volta ne ho usate due.
Ok Marco, questa è la newsletter che abbiamo sempre voluto ma moriamo dalla voglia di sapere qual è stata l’idea vincente alla fine. :)