Storia del mio licenziamento
Perché ho lasciato le agenzie di comunicazione. Una storia che non è una storia, ma una sorta di memoir pieno di banalità. Non contiene le parole COVID e Great Resignation.
Mi sono licenziato una volta sola, ma sono stati almeno cinque i momenti in cui ho deciso di farlo. In uno di questi mi ricordo che ero in treno, per passare qualche notte in un'altra città rispetto a quella in cui vivevo e lavoravo, e mentre guardavo il paesaggio scorrere fuori, per la verità degli incolti arbusti verdi tipici dei margini dove le ferrovie cicatrizzano la terra, mi resi conto di quanto tempo era passato dall'ultima volta che ero riuscito a non pensarmi come una cosa sola rispetto al lavoro che facevo. In quel momento erano passati sette anni da una foto che avevo postato su Instagram. Era il 2014, si usavano ancora dei pesanti filtri che sporcavano le nostre foto con una patina di vecchiume digitale: colori inesistenti, saturazioni incontrollate, grane posticce, e in una sorta di stilllife rivistato in salsa social avevo catturato una posa parziale del mio macbook, con accanto un blocco note, una matita, e sullo sfondo una calda luce invernale che tagliava le finestre dell'ufficio in cui ero stato assunto da poche settimane. Come caption avevo scritto: "Finally, a job", o qualcosa di simile. Quello che volevo dire era proprio questo: finalmente un lavoro vero, finalmente questa cosa da grandi anche a me, anch'io. Poco importa che avessi fatto il porta pizze tutti i giorni, tutti i santi giorni per due anni, alcune comparsate in dei bar, volantinaggi più o meno legali, e un anno a costruire su wordpress siti che non sapevo costruire per potermi permettere una vacanza in pullman in Istria. Il lavoro vero non era quello nella mia testa, il lavoro vero era un contratto, uno stipendio accreditato in un conto in banca, per fare qualcosa che avevo studiato. Il lavoro vero era l'agenzia di comunicazione digital che mi aveva assunto, e negli anni successivi non mi sarei disturbato a mettere in discussione quella convinzione, come se un po' ci fossi nato, come se un po' nascessimo di nuovo il giorno in cui qualcuno ci assume.
Ero arrivato in agenzia senza sapere cosa facesse, di preciso, un'agenzia. Anzi, fino a qualche mese prima non sapevo dell'esistenza delle agenzie e del sistema che alimentano e che le alimenta. Tutto ciò che sapevo era che avevo studiato Lettere all'Università, e che già prima di sceglierla avevo avuto qualche indizio di cavarmela con la scrittura. Ero arrivato con una buona sicurezza nel mio bagaglio tecnico, ma nessuna consapevolezza di come fosse fatto il mondo al quale la dovevo applicare. Lo devo precisare perché negli anni mi è capitato poche volte di incontrare sprovveduti come me: arrivava un sacco di gente che aveva letto bene il copione, che conosceva le agenzie più grandi del mondo, le campagne più premiate, che nonostante zero anni di esperienza, lauree in comunicazione con la vernice ancora fresca e la timidezza di chi porta sulle mani il timbro dello stage, dimostrava di sapersi muovere nel sistema agenzia con la confidenza di chi cucina in casa e sa in automatico quali cassetti aprire. Più mi sono confrontato con persone così, più ho iniziato a sentirmi fuori posto, una specie di miracolato, scambiato e messo in una culla che non mi apparteneva.
In quel treno pensavo ai giorni che avrei passato fuori, al fatto che sentivo il mio corpo guarire man mano che mettevo chilometri tra me e il mio lavoro, come quando ti allontani da una sostanza che ti avvelena, e mi domandavo come fossi arrivato a quel punto, e come fosse possibile che per sentirmi bene dovessi per forza cambiare i paesaggi, le persone, le routine e le abitudini che tanto avevo creduto di amare, che mi parevano irrinunciabili, al punto da chiedermi dove finissero loro e dove iniziassi io davvero, chi fossi io senza quei caffè alla macchinetta sempre cattivi, e quella borraccia sulla scrivania.
Dicevo, ho deciso di licenziarmi tante volte, e quella volta in treno non è stata l'ultima, ma neppure la prima. Avevo, a quella data, fatto dei colloqui con altre agenzie, alcuni lusinghieri, altri al limite della farsa. Ma ad ogni colloquio, per bene che andasse, uscivo dalla stanza reale o virtuale con l'opprimente sensazione di aver bevuto del latte rancido per paura di rimanere senza, e se la gola si era bagnata iniziava subito un forte bruciore di stomaco. Se cambiare lavoro era questo, forse lo stavo cambiando nel modo sbagliato. E d'altra parte, se stavo facendo i colloqui era perché non ce la facevo più, perché non mi piacevo più: perché tornavo a casa arrabbiato due giorni sì e uno no, e per calmare la rabbia la mia strategia era sempre uguale, e sempre meno efficace, cioè prepararmi un negroni e aspettare che facesse effetto fino ad avere abbastanza spinta per lamentarmi senza che questo si infrangesse contro la barriera di pudore che mostravo da sobrio. Il gin mi stimolava la fame, allora mangiavo voracemente qualcosa di malsano e soddisfacente, a quel punto l'ebbrezza si abbatteva a sufficienza da convincermi a concedermi un altro drink giusto per rilassarmi, calmare la rabbia e poter andare a letto prima che il pensiero del risveglio e della nuova giornata di lavoro potesse disturbarmi. Così le settimane si susseguivano, mentre piano piano ricominciavamo a vivere in un regime di semi pandemia, e al mattino guardavo la mia pelle in faccia screpolarsi dando la colpa alle ffp2, mentre avevo un'epidermide devastata dall'alcool, dal sonno agitato e dalle salse degli hamburger. Era quella pelle che si stava ricostruendo e rilassando in quel viaggio in treno, come d'incanto.
Ricordo quel momento nel vagone perché in una situazione come quella, quando pensi che forse vuoi licenziarti, o vuoi prendere una decisione in grado di cambiare tutto, stai svuotando un vaso pieno di paura per trovarci uno strato di sollievo, ed è lì, lo sai che c'è, ma mentre scavi è solo la paura che ti trovi tra le mani, e ti dici che non ce la farai, è una follia, e devi tenerti il posto, tenere duro, perché la soluzione non è mai andarsene, è un lavoro più paziente di sopportazione e di accettazione.
Pazientare e accettare, sono le parole che nei miei anni di lavoro erano diventati un mantra quasi religioso. Ero in treno quando ho trovato all'improvviso, dopo mesi di scavo, quello strato di sollievo, ero in treno quando all'improvviso ho finito la paura, dopo mesi dalla prima volta che mi ero sorpreso a dirmi "devo licenziarmi". Guardavo fuori e pensavo che la cosa che fino a qualche mese prima mi spaventava più al mondo, quella per la quale pensavo di essere la persona meno adatta, mettermi in proprio, diventare indipendente, scegliere una strada che non contemplasse il farmi assumere da un'altra parte per fare le stesse cose con persone diverse, era l'idea che mi dava più sollievo, l'unica strada a dire il vero che mi pareva di voler prendere senza costringermi a infilarmi un dito in gola e vomitare. Sepolto sotto a quel sacco di terra intrisa di paura c'era il mondo in cui ero entrato per caso, e che aveva aderito talmente bene alla mia figura che mi era sembrato per tanti anni l'unico mondo possibile, l'unico che mi avrebbe mai reso felice. Solo che, in un momento in cui evidentemente mi ero distratto, era diventato l'unico mondo che non mi avrebbe ucciso, e non è una differenza da poco. Perché è quando smetti di goderti una cosa e inizi a lottare perché non te la portino via che ne diventi schiavo.
Era cominciato tutto con l'idea che fosse necessario fare carriera, in un'agenzia; che ci fossero quindi due tipi di persone, quelli che rimangono fermi perché non ce la fanno, e quelli che vanno avanti. Come se "andare avanti" fosse dato per implicito nella volontà delle persone, come se un lavoro fosse intrinsecamente anche una questione di percorso di avanzamento.
Poi era continuato con la disillusione, la constatazione che nella realtà giovane e dinamica della comunicazione, quella in cui la proposta va chiusa entro sera e poco importa che magari il referente la aprirà tra cinque o sei giorni, si resta in ufficio e si ordina la pizza -e magari qualche birra perché no?- siamo professionisti ma non sempre professionali, siamo creativi mica cretini, un bicchiere mentre lavoriamo a qualcosa di disruptive è persino consigliato dice un recente studio dagli States finanziato da Heineken. E poi è così bello fermarsi in ufficio con persone come te, così giovani, così felici di avere "finally a job", ognuno posta la sua foto del macbook e del suo late work, e la nottata pesa di meno. E pesava davvero di meno, o almeno ci sembrava. Perché poi la proposta la chiudevi, girava bene, era un ottimo lavoro e magari la gara la vincevi pure. "Ad maiora" scriveva su LinkedIn un direttore creativo per celebrare la nuova collaborazione col brand, il direttore creativo che quella sera in cui avevi mangiato la diavola per finalizzare la sezione di execution del keynote se n'era andato al cinema perché è importante nutrirla questa indole creativa che ci ha dato madre natura, il direttore creativo che la proposta manco l'aveva guardata ma aveva fatto cambiare una slide alle 9 del mattino dopo per farla girare un po' meglio e giustificare la propria esistenza altrimenti messa in ombra dalla delega.
Era poi continuata con i primi aperitivi lunghi che invece che finire con un sano gossip e le migliori battute tratte da inside joke d'agenzia, sfociavano nel lungo e fino a lì sotterraneo sfogo di una persona che vedevi tutti i giorni, e che non immaginavi potesse in realtà essere così infelice come ti stava raccontando in quel momento, e il giorno dopo al ritorno in ufficio entravi guardando in faccia ogni persona e chiedendoti cosa ci fosse realmente dietro, se una normale giornata o un profondo turbamento, o se quel profondo turbamento fosse in realtà il tuo.
E ancora, era peggiorata. Aveva portato con sé il litigio, dopo un idillio talmente surreale da sembrare imposto, coi primi colleghi, quelli che conoscevi meno e che, dove non potevano far valere l'esperienza o le ragioni, facevano valere l'anzianità, come la ragione fosse una questione di raccolte punti.
E poi era finita a scrivere cose senza senso su slide senza senso, solo perché quelle slide dovevano esserci, perché il referente aveva promesso al suo superiore che gliel'avrebbe fatta trovare, e così si sarebbe sbloccato il budget per fare quel progetto senza senso. Quella slide si faceva senza discutere, perché noi cliente vi diamo tanti di quei soldi che se vogliamo possiamo anche farvela rifare in sessanta lingue diverse, tanto lì fuori è pieno di agenzie che fanno la fame, ci si sentiva dire, e poco importava che quei soldi non sapessimo quanti fossero con esattezza, ma che soprattutto non li vedessimo nemmeno, perché ogni mese l'affitto lo si pagava con gli stessi soldi, e gli stessi sacrifici.
E poi, ben oltre il momento in cui era finita, si era trascinata. A parlare di "sostenibilità" perché l'aveva fatto anche il competitor, a metterci dentro TikTok e Twitter perché sui canali bisognava esserci, a sentirsi chiedere un video virale, perché la viralità costa niente di inserzioni ed è tutta una questione di creatività, e se siete voi l'agenzia creativa dovete avercela voi l'idea virale.
E poi, già agonizzante, si era schiantata sul dal cliente ci andiamo noi non perché tu non sia pronta, ma per una questione politica di rappresentanza, lo sai come funzionano queste cose, le regole le dettano loro, noi siamo al servizio, però non chiamateci fornitori, chiamateci partner.
Sono sceso da quel treno, e in una città che non era la mia, nell'aria calda di metà ottobre mi sono fermato su tutte quelle parole. Slide, keynote, concept, copy out, copy in, copypost, awareness, insight, brand pyramid, campaign, mood, disruptive, viral, ROI, media, key visual, payoff, caption. La prese, il copy al volo, la nuova strategia, il link in bio, l'HDMI pronunciato non sappiamo bene perché acca-di-emme-ai, in inglese solo l'ultima. Ho cercato quanto quelle cose mi appartenessero, quanto mi definissero, quante di quelle parole fossero davvero nel mio genoma e in quello che credevo essere il mio patrimonio, e mi vergognavo, mi vergognavo come un pazzo di aver creduto di non potermele scrollare di dosso. Ero alla ricerca di un senso in decine, centinaia di microtask su cui avevo finito per scandire le mie giornate, dimenticandomi che io ero lì perché in fondo mi piaceva scrivere, pensare e trasmettere significati nuovi a chi mi stava attorno, e assorbire i loro, e quella cosa stavo smettendo di farla.
Ho fatto il copywriter per sette anni e il direttore creativo per un anno prima di licenziarmi. Ero inserito in una struttura piramidale in cui avevo delle persone sopra, delle persone a fianco e delle persone sotto. Gli avanzamenti di stipendio, come spesso avviene in questo ambiente, viaggiano su un binario separato da quello degli avanzamenti di carriera, a volte le due cose nemmeno si parlano, e gli hr manager hanno un catalogo di giustificazioni sensatissime e inoppugnabili per motivartelo. Nella maggior parte dei casi comunque sarai tu a sentirti in colpa anche solo per averci pensato a volere più soldi a fronte di una richiesta di avere più impegno e dedizione. Tu vorresti dire "sì ma quella volta, tanti anni fa, quella pizza e quella birra per chiudere la prese", ma non è il caso, hai imparato tante cose negli anni, per esempio a stare zitto.
Ho lavorato in agenzie indipendenti, non in grandi gruppi, quelli che nel peggiore dei casi sono dei tritacarne e nei migliori delle enormi strutture che macinano gare con flussi e workflow precisi e codificati che a tutto pensano fuorché al tempo libero del singolo. Le agenzie in cui sono stato io ci hanno sempre quantomeno provato a non diventare quella roba lì, a smarcarsi dal "funziona così", lo hanno fatto con risultati alterni e in modo schizofrenico talvolta, sono certo che l'abbiano fatto perlopiù in buona fede. La mia prospettiva in queste parole è una prospettiva sofferente, ma mi rendo conto che in certi momenti il funzionamento di un posto di lavoro passi anche per la sofferenza di chi vi lavora, per periodi più o meno brevi. Non esiste un lavoro senza sofferenze, frustrazioni o soverchie, credo.
Perciò la storia del mio licenziamento è anche la storia di un privilegio. Di chi ha fatto un lavoro per il quale aveva studiato, che ne ha valorizzato inclinazioni e percorso universitario, con un contratto che è sempre stato onorato, e che si definisce in modo atroce ma sdoganato come un "lavoro creativo", un lavoro ambito e desiderato da tantissime persone, non solo da chi ha guardato Mad Men, ma anche da chi ha sacrificato anni di studi a comunicazione per farlo. E un privilegio è anche poter fare quello che ho fatto io, a 34 anni, il giorno in cui sono entrato nel sito dell'INPS e ho inviato le mie dimissioni via PEC senza aver firmato alcuna lettera di impegno per un altro contratto a tempo indeterminato. Nella mia mano che tremava per il terrore e il brivido di non poter più tornare indietro c'era il privilegio di sapere che l'affitto, male che fosse andata, l'avrei pagato con il TFR, e insomma i miei genitori ci sono ancora, hanno due buone pensioni, ho una famiglia che mi può sostenere e aiutare, che non mi lascerebbe affondare.
Poter cercare un senso in ciò che si fa per vivere è il più prezioso dei privilegi, credo, e se nella mia bolla è una vissuta come una ricerca necessaria, imprescindibile, io non penso affatto che lo sia. È proprio questo bisogno di dare un senso al lavoro di per sé e non come una tessera di un'esistenza più ampia che me l'ha alienato, che mi ha spinto ad accettare condizioni non vantaggiose per me o rallentamenti che non mi meritavo, nonostante non ci fosse un lavoro più adatto a me e a ciò che so fare di quello.
Mi sono licenziato una sera di inizio novembre, pochi giorni dopo il mio compleanno, e al mio arrivo in ufficio quella mattina non sapevo che l'avrei fatto. Una telefonata del consulente che mi stava dando informazioni sull'apertura della partita IVA mi disse che, se volevo aderire al regime forfettario, dovevo concludere il rapporto lavorativo in corso entro la fine dell'anno. Calcolando anche il preavviso, avevo pochissimi giorni per farlo. Preso dal panico quindi, telefonai a un paio di persone alle quali dovevo fare la gentilezza di dirlo prima che lo leggessero in una PEC, glielo dissi, e poi mi licenziai dall'ufficio, prima di tornare a casa. Riuscii a far sembrare improvvisa e incosciente una decisione che aveva iniziato a scavarmi dentro ormai due anni prima, e che una dopo l'altra aveva sgretolato le bugie che mi stavo raccontando, chiedendomi "ma tu sei davvero certo di saper fare solo questo e di essere perduto senza questo?".
In quel momento ero un direttore creativo con un rapporto molto complicato e conflittuale con tantissime persone della mia agenzia, ma mi avevano dato il compito di fare da responsabile a una quindicina di content manager più giovani di me, e io, senza mezzi termini, li adoravo. In qualche modo, nel modo in cui potevo prendermi cura di loro, tentavo di riparare la disillusione e la sofferenza che avevo provato io, non perché fossero stadi necessari per tutti, ma perché era un'occasione per rendere utile e sensato il dolore che non avevo potuto evitare. Perciò licenziarmi fu anche rinunciare a questo, rinunciare a loro, rinunciare soprattutto alle persone. O meglio, rischiare di rinunciarvi, perché poi tra le persone c'è un legame non regolato da contratti di lavoro, ma questo anche se lo speri non lo sai.
Per gran parte di questo processo, ho creduto che le persone bastassero per essere felici di un lavoro. È però vero che a rendermi infelice erano, anche lì, persone, altre persone. Nessun lavoro rende infelici di per sé. Scelte di altre persone, dinamiche instaurate da altre persone, imposizioni di altre persone, visioni di altre persone. Mentre mi licenziavo per mettermi in proprio mi era chiaro questo: le persone mi sarebbero mancate da morire, le abitudini rimosse mi avrebbero lasciato dentro un vuoto, la sensazione che tutto sarebbe andato avanti anche senza di me mi avrebbe fatto sentire inutile e dimenticato. Come sempre, a seconda del lato da cui le guardi, le cose sono leggere e gravissime.
La storia del mio licenziamento è la storia di una salute mentale compromessa da persone che non hanno mai voluto realmente farmi del male. Non c'entrano il covid, le grandi dimissioni, il capo cattivo, il mollare tutto per vivere in barca, il ritorno alle cose semplici. Mi sono licenziato perché ho lasciato che pensieri irrilevanti, problemi non miei e ansie non necessarie attaccassero il mio sistema fino a entrarmi sottopelle, facendomi dimenticare quello che volevo io: crescere, imparare, scrivere. Non credo che si debba per forza arrivare a questo punto. Ho riprovato una sensazione di felicità in tre occasioni, dopo il mio licenziamento. La prima è stata quando mi sono iscritto a un corso di formazione. Sentire che non ero arrivato a un plateau, che non avevo finito lo spazio su disco ma che anzi c'erano territori incolti sterminati nel mio cervello che avevo trascurato per anni mi ha reso felice. La seconda è stata quando una sera sul mio divano ho realizzato che la mattina dopo avrei potuto decidere cosa fare di un mercoledì mattina qualunque. La terza è stata quando mi sono reso conto di aver smesso di vedere il mio telefono cellulare come una minaccia di ricevere una chiamata spiacevole, o una notifica che mi obbligasse a rivedere le mie priorità per sottometterle a quelle di qualcun altro. È tutto successo diverso tempo dopo essermi licenziato.
Il coraggio, insomma, non c'entra niente. Se provare a cambiare vita, cambiare lavoro ed essere in buona sostanza felici è un privilegio, non dipende dall'avere o meno il coraggio, sarebbe un'ennesima colpevolizzazione di chi questo privilegio non ce l'ha.
La felicità è un concetto più complesso di come ce la insegnano, si porta dietro anche tanto dolore e amarezza. Ma penso che in fondo abbia a che fare con l'essere il più possibile onesti con noi stessi. Felicità è licenziarsi, ma anche rimanere. È costruirsi rapporti ma anche lasciarli andare. È rigettare il sistema delle agenzie di comunicazione, ma anche trovare un modo di farlo funzionare per noi. La storia del mio licenziamento non è un modello, anzi è l'esatto contrario, è il mio tentativo di correggere alcuni errori maldestri che ho fatto con la mia coscienza e le storie false che mi sono raccontato. Di questo sono il solo responsabile.
Pochi mesi dopo essermi licenziato ero al supermercato, al mattino, per prendere le classiche due cose che mi mancavano. A un certo punto, in modo compulsivo, ho aperto le chat di lavoro per controllare che nessuno mi avesse scritto. Ci ho messo un po' a rendermi conto che in quel momento, per le scelte che avevo fatto, veniva prima il supermercato e poi la richiesta in chat. Mio padre, la prima volta che gli dissi che volevo fare il freelance, provò una sola volta a dirmi che un posto fisso dava più garanzie, ma non lo fece una seconda volta. Anche avere dei genitori che sappiano fidarsi della tua felicità è un privilegio.
Oggi non faccio cose poi tanto diverse da quelle che facevo in agenzia, e che ero arrivato ad odiare. La comunicazione molto spesso è trattare cose irrilevanti come questioni di vita o di morte. Ecco, direi che la morte non c'entra niente, ma la comunicazione spesso fa la differenza tra l'infelicità e la serenità. La differenza rispetto a prima non è tanto essere dipendente o autonomo, avere o non avere un capo, orari e sedi di lavoro, lavorare per il grande o il piccolo brand. La differenza è che una volta sola mi sono dimenticato del perché io faccio il lavoro che faccio, che cosa mi insegna, che cosa mi dà. La priorità ora è non dimenticarmene più, ascoltarmi, essere onesto con me stesso quando ho un'idea, e quando sento che la sto cambiando.
Grazie perché hai raccontato anche la mia storia. Metti casa editrice al posto di agenzia, metti fiera al posto di gara, eccomi qua. Stessi pensieri, stessi passi, stesse sensazioni, incluso tutto quello che dici sulla salute mentale. Da quando sono freelance la cosa che mi dico di più è "che sollievo".
Tanta stima per la consapevolezza del tuo percorso