Trovare un insight, raccontare una storia, diventare migliore.
La cosa più bella della comunicazione è scovare una leva emozionale nelle persone. Si chiama “insight”. C’è dove c’è della tensione, sia quasi insignificante o enorme. Cercarla ci rende migliori.
Ha aperto un nuovo negozio di giocattoli in città, dopo anni in cui non ce n'erano più stati, e avevano chiuso uno dietro l'altro. Ero arrivato a pensare che i bambini giocassero solo coi telefoni ormai, ma forse ero solo distratto dal dover vivere una vita adulta, in cui noti solo ciò che ti serve. Mi sono fermato davanti alla vetrina a sbirciare dentro, e dietro i peluche c'era un'intera parete di Lego. Io non sono un fanatico dei Lego, ma ci ho giocato tanto, e mi ricordano una vita diversa, in cui stavo bene e tutto funzionava come mi avevano sempre insegnato che dovesse andare. Mi vergognavo ad entrare. Ho aspettato che nel negozio, ancora vuoto, entrasse una persona della mia età e andasse senza timori alla parete dei Lego, per trovare il coraggio di farlo anch'io. La commessa si è accorta di questa mia esitazione e mi ha sorriso.
Non ricordo se l'ho già detto, ma io nel mondo della comunicazione ci sono finito tardi e per caso, e da completo ignorante di come funzionasse. Non mi era ben chiaro ad esempio, anche in età molto avanzata, età in cui alcune persone che ho avuto la gioia di crescere raggiungevano invece una solida esperienza, che cosa fosse un'agenzia pubblicitaria. Non sapevo delle gare, delle presentazioni, delle proposte. Sia benedetto sempre chi assume senza esperienza.
Ad ogni modo poco male, è un meccanismo che si impara in fretta. Ciò che avrei voluto sapere prima invece era il senso del mio lavoro come copywriter, ma più in generale come comunicatore. Oggi mentre scrivo e provo a sintetizzarlo in una puntata di una newsletter, mi rendo conto che non è detto esistesse una via più breve per metterlo a fuoco, e che anche se fosse, non ci sarebbe stato modo di farlo lavorando da soli, invece che inseriti nel contesto di un'agenzia piena di persone con i loro desideri e le loro paure.
Nei miei primi lavori credevo che ciò che si aspettasse da me fosse il calembour, la genialità, il gioco di parole più bello degli altri già letti, quello più fine o quello più fragoroso.
Ho sempre giocato con le parole, quindi mi pareva tuttosommato un lavoro in cui avevo un vantaggio storico, e per un po' condurlo in questo modo ha funzionato, perché ancora non avevo compreso il senso profondo di ciò che stavo facendo.
Sul mio tavolo arrivavano foto a cui dare una didascalia, storie da scrivere, tematiche da sviluppare, progetti a cui trovare un nome, e ahimé anche hashtag.
Però il punto non poteva essere solo questo, e se lo fosse stato sarei stato destinato a soccombere proprio per il motivo di cui ho parlato all'inizio: se a vincere è il gioco di parole più originale vince chi ne sa di più, chi ne ha visti di più, in parole povere chi ha più cultura pubblicitaria, e io non ne avevo.
La fortuna di crescere in un'agenzia digital è che guida la strategia, e che puoi ficcare il naso nel backend di un progetto di comunicazione: i dati, la ricerca, le interpretazioni. Man mano che i progetti diventavano più complessi e "potenti", l'analisi dei dati e delle persone sembrava nascondere interrogativi più stimolanti di quale gioco di parole inventarsi per suscitare un sospiro. La strategia non erano fredde analisi e generalizzazioni basati su oscure interviste e dati di vendita. O meglio, sì. Ma il mio compito era proprio individuare pattern umani e storie umane dentro a quei dati, quelle generalizzazioni.
Insomma, per alcuni anni ho fatto il copy creativo ignorando che cosa fosse l'insight, e a volte l'ho centrato inconsciamente, per un altrettanto inconscio desiderio di essere utile a qualcuno con un messaggio di comunicazione, o di rispondere a una tensione esistente. Altre volte ho semplicemente accontentato un cliente, scrivendo una cosa carina, simpatica, smart, ficcante come si ama tanto dire, e del tutto senza senso.
Il fatto è che non sapevo di doverlo cercare, non sapevo cosa cercare, non avevo realizzato quanto avesse a che fare in modo stretto con l'essere una persona decente.
C'è una parola che fa parte di quella categoria di parole importanti, quelle che profumano di antica Grecia e che ci sembrano troppo grandi per poterle afferrare in tutti i loro angoli, perché sono fatte per racchiudere una realtà complessa, talmente complessa che non possiamo vederla solo pronunciandola, ma sentiao che la pancia risponde allo stimolo di leggerla o sentirla pronunciare, ed è "empatia". La definizione di empatia la potete trovare con una facile ricerca. Il mio concetto di empatia è la capacità di vestire i panni di qualcun altro, e vivere una storia inventata, indistinguibile da una storia che quella persona potrebbe realmente vivere o ha già vissuto.
Mi è stato chiaro dopo poco tempo che il mio lavoro vero fosse questo: raccontare storie entrando nella testa e nel cuore di qualcun altro. Ma non sono riuscito a farlo davvero prima di decidere di conoscere più a fondo il mio.
Il problema è che come esseri umani abbiamo cercato di dare un ordine alle emozioni, mettendole in una scala e classificandole tra buone e cattive. Le buone le dobbiamo ostentare, ricercare e suscitare. Le cattive le dobbiamo celare, combattere ed evitare. Sulle emozioni dobbiamo basare i nostri comportamenti e ciò che diciamo. Nella realtà però non funzioniamo così, ed è tutto un po' più complesso e stratificato, come quei disegni fatti sui fogli lucidi sovrapposti.
Una volta mi è capitato che una mia amica mi desse una bella, bellissima notizia, che si è infiltrata sul mio vissuto e mi ha corroso, provocandomi dolore. L'ho guardata, le ho sorriso, e le ho detto con tutta la convinzione di cui ero capace "sono felice per te". Era una bugia. Anzi non lo era. Non era né la verità né una bugia, era qualcosa per cui non esiste una sola definizione, perché che fossi contento per lei era vero, come possiamo non essere felici della felicità di qualcuno a cui vogliamo bene e che crediamo lo meriti? Però era anche vero che stavo provando un forte dolore, di cui questa persona non sapeva nulla e non poteva immaginare nulla. Cosa valeva di più? Il bene o il male? Ha mai senso questa domanda? Devo vergognarmi di ciò che provo? Esistono occasioni in cui un mittente ha la priorità sul destinatario? Se una comunicazione mi rende felice posso dare per assodato che renda felice chiunque la sente? E se non posso, ci sono momenti in cui ho comunque più diritto di essere felice di quanto ne abbia l'altro di esserne ferito?
Mi sono quindi pensato tante volte come mittente, provando a ragionare in anticipo, a immaginarmi tutti i modi in cui quello che dicevo potesse ferire l'altro. Per farlo, devi diventare quella persona. Non credo di riuscirci sempre, anzi sono di più le volte in cui non ci riesco o mi scordo di farlo. Penso agli eventi che mi hanno costruito, alle cose che ho raccontato in terapia in questi anni e che nessuno sa, che nemmeno io sapevo prima di raccontarle, e non è difficile capire come mai certe cose dette con leggerezza da chi sa una minuscola parte di me siano in grado di provocarmi un dolore insospettabile. L'empatia è provare a vivere queste storie degli altri in anticipo, senza saperle. Immaginarle desumendole da un gesto, da una parola usata in luogo di un'altra, da un contesto sociale, un'esperienza pregressa.
Intuire una tensione dormiente e pronta ad esplodere è la parte più difficile e affascinante del mio lavoro, e la cercavo sia nelle slide degli strategist, sia guardando negli occhi le persone con cui lavoravo e provando a intuirne i desideri, le paure, le frustrazioni, rapportandola alla mia storia e ricordandomi che non doveva essere la mia storia un manuale d'istruzioni, ma un semplice romanzo tra i tanti esistenti. Sono le persone che mi hanno allenato a farlo.
Osservare i comportamenti delle persone ti rende uno scrittore migliore, perché quello che scrivi può dare ossigeno a una tensione personale o culturale che toglie il respiro, se nasce dall'empatia e dal comprendere che qualcosa che per te non è un problema, può esserlo per qualcun altro.
Non esiste un metodo unico per trovare un insight, farlo emergere e risolverlo, anche se è questo che bisogna fare, né più né meno. Esiste però l'allenamento a diventare persone migliori, a farsi le domande giuste, a prendere le distanze da ciò che si scrive come se le parole fossero nostre e le avessimo inventate noi. Perché se ci affezioniamo alle nostre parole più che alle persone le feriremo. E davvero non so dire se il mio lavoro mi abbia insegnato a essere una persona migliore nella mia quotidianità, o se la terapia mi abbia insegnato a scavare di più nel modo in cui mi comporto io e si comportano gli altri finendo per aiutarmi poi ad avere idee di comunicazione, o se conoscere i dolori degli altri mi abbia raccontato storie che mi hanno aiutato a inventarmene o prevederne altre, che toccassero le stesse corde.
Ma dello scrivere non mi diverte più il gioco, il wow, ma notare i dettagli. Un uomo cieco che ha paura di attraversare la strada sulle strisce; una persona che sta per prendere un treno che non vuole prendere; una bugia detta per proteggere qualcun altro; la vergogna di avere un buco nei pantaloni; una canzone al centro commerciale che ti manda in crisi perché la stavi ascoltando prima di fare un incidente traumatico. Gli insight spesso si nascondono dietro a queste cose, dietro al sorriso di una commessa che non sa nulla di quando hai dedicato un intero cassetto della tua cameretta ai mattoncini colorati, perché quel cassetto te l'aveva costruito tuo padre e quel cassetto è rimasto pieno di Lego anche quando tuo padre è andato via di casa; ma capisce che vuoi andare a vedere i Lego anche se hai trentacinque anni, e che ti serve un complice sconosciuto. Che non ti giudica. Che non ti chiede quanti anni ha tuo figlio. Che ti fa sentire anticipato, compreso, e quindi meno solo.
Ehi! Questi National sono da approfondire! (Per dire che ho letto e apprezzato tutto) ;-)
Davvero bello. Nel leggerlo ho avuto la sensazione di avere uno sguardo molto fine, ma credo sia merito tuo.