Come presento un naming
Ovvero, come gestisco la fase delicata in cui posso valorizzare o bruciare un lavoro per il quale ho fatto fatica.
Allāinizio questa puntata era un tuttāuno con la precedente, quella in cui ho raccontato come faccio io di solito a condurre il processo creativo in cui realizzo un naming. Volendo la recuperate qui sotto.
Poi però le cose stavano andando troppo per le lunghe, quindi ho deciso di separare le due uscite. In fondo, anche questo rientra nella logica di scegliere come presentare un lavoro.
Il naming ĆØ particolarmente delicato, perchĆ© appunto tutto si riduce a quel mezzo secondo in cui il nome compare per la prima volta scritto davanti agli occhi del cliente, e allāaltro mezzo secondo in cui se lo pronuncia in testa e ne scopre il suono. Non possiamo controllare quel secondo composto da due metĆ , anche se ĆØ quello decisivo. Però possiamo controllare tutto il tempo attorno. Ecco come mi muovo io.
Fai una selezione estrema
Non andare lì con più di cinque, sei proposte, a meno che tu non abbia grande confidenza col cliente. Se ti presenti con un numero di proposte che si conta sulle dita di una mano potrai temere di dare l'idea di aver lavorato poco, di aver poche idee. In realtà devi far capire che per ogni proposta che presenti, in testa te ne sei scartate altre dieci (e del resto è andata davvero così).
Dare poche possibilità significa far percepire anche il valore di ciò che presenti. Se presenti anche roba che non ti convince solo per fare numero, e quindi arrivi con 20 proposte, il cliente penserà che in fondo non ci metti tanto a fargliene altre 20. Ti è mai capitato di passare ore a scegliere un film su Netflix solo perché pensavi che quello perfetto fosse il prossimo? La cosa peggiore (o migliore, se a differenza mia fai dei preventivi furbi) che ti possa capitare è che il cliente entri in questo loop.
Racconta anche le proposte scartate
Per lo stesso motivo, può avere valore anche raccontare quali sono le ipotesi su cui hai lavorato e che a un certo punto sono uscite dalla rosa del possibile. Spesso ci scordiamo che, nel momento in cui presentiamo un lavoro, noi abbiamo percorso già cento chilometri, mentre chi ci sta ascoltando è a zero. Raccontare cosa abbiamo visto prima di incontrarci può trasmettere il senso della ricerca che stiamo facendo, aiutare a capire che ragionamenti abbiamo fatto e come funziona la nostra testa. Se sveliamo come funzionano i nostri pensieri è probabile (ma non automatico) che trasmetteremo lo stesso modo di ragionare al cliente, e che poi trovare un accordo sia più semplice.
Trova un senso comune alle proposte scelte
Non limitarti a selezionare solo le proposte migliori. Piuttosto, seleziona una rosa di proposte complete e complementari, che riescano a dare uno spettro più ampio possibile. Cerca di evitare lāeffetto lista. Se questo implica lasciare fuori qualche proposta di cui siamo convinti, ma che non riusciamo a far rientrare in un ragionamento organico, meglio tenerla da parte. Non si sa mai che possa tornare utile per un rework.
Proverò a spiegare meglio cosa intendo nel paragrafo successivo.
Raggruppa le proposte per criterio
Qui ĆØ dove devi tirare fuori le tue competenze di storytelling, inventando ogni volta, per ogni lavoro o per ogni cliente, una storia diversa entro cui farai muovere le tue proposte.
Una volta che le hai in mano, raggruppale per categoria. Puoi avere due proposte con il nome di un personaggio; magari tre che seguono il criterio del simbolismo.
Ecco un esempio di come lāho fatto una volta per un cliente (perdonate lāart direction orrenda)





Lāobiettivo ĆØ porre il cliente prima di tutto davanti alla scelta di un metodo, di un criterio, che di un singolo output.
Se dal primo round non uscirai col nome giusto, almeno uscirai con un criterio che gli piace, e saprai meglio dove cercare in fase di rework.
Dai alle proposte un ordine che comunichi qualcosa
CāĆØ chi dice che sia meglio mettere la proposta migliore, o quella su cui si punta di più, per prima; chi sostiene che prima vada sparato qualche colpo di riscaldamento, poi i colpi caldi e poi quelli scarichi; cāĆØ chi invece crede che le presentazioni debbano essere un climax, e presentare proposte di valore e forza crescente. Per mia esperienza, tutte e tre le ipotesi sono vere, a seconda del contesto. Quanto tempo ho per presentare? In che condizioni psicofisiche ĆØ il cliente? Quanto lunga lāho fatta? Sono riuscito a individuare un delta tra i miei gusti e quelli che penso siano quelli del cliente?
Qualsiasi scelta facciate alla fine, tenete presente che lāordine in cui stilate le proposte ĆØ importantissimo e irrilevante. Importantissimo perchĆ© ogni posizione ha una visibilitĆ differente. Irrilevante perchĆ© alla fine i gusti di chi sceglierĆ restano imperscrutabili, e una proposta che straccia le altre lo farĆ sia dalla prima posizione, che dalla terza, che dallāultima.
Presenta prima il ragionamento e poi il nome
Molti nomi non arrivano subito. à normale se ci pensi. Perché Amazon si chiama Amazon? Perché Bending Spoons si chiama così? La verità è che non è importante che il tuo nome arrivi subito e sia chiaro a tutti, anzi, è persino irrilevante.
La cattiva notizia però, ĆØ che a un cliente il nome deve piacere a prima vista, altrimenti lo scarterĆ . E non importa che poi tutto quadri perfettamente, quellāistante in cui lāha incontrato per la prima volta ĆØ decisivo nel gusto che lascia. Perciò guidalo a scoprirlo: parti dal ragionamento, portalo nella tua testa, fagli fare il percorso e solo alla fine manda avanti la slide in cui lāhai scritto grande, a caratteri cubitali.
Abbina un payoff al nome
Il payoff ĆØ interamente unāaltra scienza, per la quale ci vorrebbe un altro manuale (e soprattutto, un altro preventivo, se te lo chiedono assieme). Però vale comunque la pena di fare qualche prova di associarne uno al naming che stai presentando. A volte può fare la differenza tra il far funzionare un naming e farlo passare inosservato, perchĆ© può completarne il mood e il significato.
Quando, seguendo la tecnica del personaggio, ho proposto a unāazienda che ha creato un servizio di noleggio powerbank AMPERRY, in sostanza mascottizzando la figura di AndrĆ©-Marie AmpĆØre in un simpatico animaletto, ho proposto il payoff (mai utilizzato) āYour load of AmpĆØre, everywhereā. Era un payoff che dichiarava un beneficio allāutente molto diretto, giocava con una rima, chiariva il nome senza spiegarlo. Rendeva tutto un poā più rotondo.
Porta pazienza
In uno dei passaggi più densi e drammatici della letteratura che mi sia capitato di incrociare in vita mia, il personaggio di Peter Stillman creato da Paul Auster in Città di Vetro, il primo racconto di Trilogia di New York, dice:
Consideri una parola che corrisponde a una cosa: Ā«ombrello Ā», per esempio. Quando pronuncio la parola Ā«ombrelloĀ», lei nella sua mente vede l'oggetto. Vede una sorta di bastone con alla sommitĆ dei raggi pieghevoli di metallo facenti da telaio a un tessuto impermeabile che, una volta aperto, proteggerĆ la sua persona dalla pioggia. Quest'ultimo dettaglio ĆØ importante: un ombrello non ĆØ solo una cosa, ma ĆØ una cosa che svolge una funzione... in altri termini, esprime la volontĆ dell'uomo. Se ci riflette un poco, ogni oggetto ĆØ analogo all'ombrello in quanto svolge una funzione. Una matita serve per scrivere, una scarpa per essere calzata, un'auto per esser guidata. Ora, la mia domanda ĆØ questa. Cosa succede quando una cosa non svolge più la propria funzione? E' sempre quella cosa, oppure diventa qualcos'altro? Se lei lacera la tela dell'ombrello, quest'ultimo ĆØ ancora un ombrello? Spiega i raggi, se li pone sopra la testa, esce sotto la pioggia e si bagna. E possibile persistere a chiamare questo oggetto ombrello? Generalmente, la gente fa cosĆ. Tutt'al piĆŗ, arriveranno a dire che ĆØ un ombrello rotto. Per me, questo ĆØ un grave errore, fonte di tutti i nostri disagi. GiacchĆ© non può piĆŗ svolgere la propria funzione, l'ombrello ha smesso di essere ombrello. Può assomigliargli, può pure essere un ex ombrello, ma ora si ĆØ trasformato in un'altra cosa. Tuttavia la parola ĆØ rimasta la stessa: perciò non rappresenta più la cosa. E' imprecisa; ĆØ falsa; cela l'oggetto che dovrebbe svelare. E se noi non possiamo neppure nominare un oggetto comune, quotidiano, che teniamo nelle mani, come potremo sperare di discorrere delle cose che veramente ci riguardano? A meno che non cominciamo ad assimilare il concetto di cambiamento nelle parole d'uso, continueremo a essere perduti.
In altre parole: un nome ĆØ una cosa seria, serissima, ed ĆØ normale che un cliente ci pensi milioni di volte prima di timbrarlo e legarcisi tutta la vita. Quindi spesso i progetti di naming saranno forzati verso una proposta non tua. A volte proprio naufragheranno. A volte sarĆ impossibile uscirne. Il mio consiglio: porta pazienza, ĆØ normale. Non riuscire a fare un naming non vuol dire non saperlo fare. Vuol dire che certe cose āsi chiamanoā, nel senso che molto spesso ĆØ giusto che diano il nome a sĆ© stesse, e basta.
Grazie della condivisione Marco!