I corsi di scrittura non servono a niente?
La risposta breve è no. Nella risposta lunga scoprite se la doppia negazione afferma o nega.
"Conosci un buon corso di scrittura?" è una delle domande che mi sono sentito rivolgere più spesso da chi voleva fare questo mestiere, e la mia risposta è sempre stata "No". Un po' perché è vero, non ne conosco; ne ho fatti due, uno propedeutico per il mio corso di laurea all'università, e uno me lo sono scelto e pagato, alla Scuola Holden, neanche 6 mesi fa.
Un po' perché lo so cosa cercano le persone che me lo chiedono: vogliono arrivare all'ultima lezione con un toolset, una lista di cose, nozioni e conoscenze che li renda, ai loro occhi e quelli altrui, senza possibilità di equivoco, scrittori e scrittrici. È un'idea romantica, di quel romanticismo che avvertiamo in fondo ai nostri cuori come una speranza destinata ad essere disattesa. Quelle cose che ci diciamo "sarebbe bello se", e per una frazione di secondo ci crediamo davvero, e in un tempo altrettanto breve ci rendiamo conto che la realtà è un'altra cosa.
Ecco, un corso di scrittura non è purtroppo come un corso di lingue, o un corso di un linguaggio di programmazione, per fare un esempio. Quelli, sì, sono corsi che al loro termine, se hai studiato e ti sei comportato bene, ti lasciano con un bagaglio che puoi quantificare, rielaborare, spendere in un curriculum.
Un corso di scrittura è inutile? No, non direi. Direi che non è mai professionalizzante, quello sì, se lo intendiamo come qualcosa che mi dovrebbe insegnare delle tecniche universali. Ora non ha molto senso che io insista su argomenti che altri hanno approfondito e argomentato molto meglio di me; però io a qualche corso di scrittura ci sono stato, e ancora non lo sapevo, ma ho fatto quello che avrebbero dovuto davvero insegnarmi a fare: osservare.
Molto spesso i corsi di scrittura sono dei ricettacoli di persone disagiate, perché scrivere è uno dei tanti modi disperati con cui si tenta di scrollarsi di dosso un senso di inadeguatezza sociale. E non importa che queste persone siano geniali, bravine o senza alcun talento, perché ad ogni modo un corso di scrittura è il posto sbagliato per loro. In genere se ne accorgono abbastanza presto, ovvero quando si rendono conto che parte importante di questo metodo didattico è leggere i propri scritti in pubblico, di fronte a una platea di simili, simili ma pur sempre estranei. Ho visto tante persone scoprire con orrore questa cosa e andare nel panico, rendersi ridicole con scuse altrettanto risibili pur di non affrontare la prova della lettura, fingersi malate il giorno dopo, andare al bagno tre o quattro volte pur di saltare il turno, inscenare un blocco totale dello scrittore per presentarsi a mani vuote e non avere quindi un bel niente da leggere e da sottoporre. Finché qualcuno non ha fatto cadere il velo della vergogna, ammettendo con candore la verità in nome di un'intera categoria:
"Non leggo ciò che scrivo in pubblico, lo scrivo per me, per il mio intimo, non per una platea giudicante."
o parole simili, altrettanto perentorie e improbabili da sentire a un corso di scrittura che invece ha nella condivisione degli scritti e nella valutazione reciproca un presupposto cardine.
Rendermi conto di quanto le persone che scrivono confondano l'atto dello scrivere, che è un fatto privato e intimo, con la scrittura, che è invece un'attività creativa e tecnica, che ha nel suo tuffo fra i lettori una parte fondamentale della sua esistenza, mi ha dato informazioni cruciali per capire questo mondo e questo mestiere. Per chi scrive, ed è obbligato a farlo in fretta, secondo tempi prestabiliti e poi a presentare ciò che ha "prodotto", imparare a condividere è un esame imprescindibile.
Leggere la tua storia, o il tuo racconto, o la tua poesia di fronte a una folla famelica delle tue balbuzie, dei tuoi arcaismi giovanili o delle tue espressioni cliché è un'esperienza spaventosa che ha dato la nausea anche a me, ma l'esibirsi porta sempre con sé la paura del tonfo, e questo timore non se ne va mai. Ha senso affrontare qualcosa che non puoi vincere? In questo caso sì, perché farsi leggere aiuta a fare i conti con la percezione di sé e del proprio ego, e a vedersi ridimensionati.
Ricordo per esempio un ragazzo leggere con passione, con foga teatrale un suo racconto tutto pieno di parolacce bukowskiane che nessuno in italiano dice mai nella lingua reale, come FOTTUTAMENTE; un monologo straziante sulla decomposizione dell'io paragonato alla decomposizione della sigaretta che stava fumando il protagonista, e al di là di un'anima derivativa perdonabilissima, ciò che rimase impresso in noi era la sua erre moscia, che diede uno schiaffo mortale alla sua interpretazione seria e accorata, trasformando quella lettura in una scena comica, quando esclamò, dipingendo un arcobaleno con la rotazione del palmo della mano, "L'AVIA... È DI VETVO!". Un disastro. La combo metafora inflazionata + erre moscia lo eternò in quella posa, invece che per la sua opera letteraria.
Poi c'era il ragazzino cresciuto a pane e romanzo di formazione americano, con una scrittura alla moda, molto avanti, che saltava dal tono comico a una cruda autoanalisi con la maturità di un veterano, e però lo vedevi che aveva tra le mani un talento che non riusciva controllare, e gli faceva molto più male di quanto divertisse noi ascoltatori.
Poi c'era il patito di fantascienza, non uno da Star Wars e poco altro, un vero cultore che aveva approfondito gli angoli più remoti del genere, e che in questi angoli aveva selezionato le parti meno digeribili a un pubblico profano, e le proponeva senza pietà.
E senza pietà era anche quella ragazza che era riuscita a descrivere una scena statica paragonandola ad almeno quattro correnti della pittura, dal puntinismo all'impressionismo, ottenendo solo un grave effetto soporifero.
E poi c'era quello che credeva che scrivere bene fosse proporre coppie di aggettivi ben assortite, come se si trattasse di abbinare i calzini al maglione, tipo "stordito e crudo", "indolente e fastidioso", e insisteva su queste costruzioni come se in queste sinergie tutte da dimostrare si annidasse il segreto dello scrivere bene, e vi confesso dolente e pentito che quel ragazzo ero io.
Non ho imparato a scrivere a quel corso di scrittura, come non ho imparato a farlo all'altro che ho frequentato, né a nessuno degli incontri workshop con scrittori e giornalisti a cui sono stato. Però lì ho conosciuto persone, le loro storie, e sono venuto a contatto con il modo in cui le loro personalità e i loro vissuti si trasformavano in scrittura, che fosse accettabile o meno, e nell'analizzare questo flusso ho sempre imparato molto. Soprattutto ad accettare che scrivere non è tanto una cosa che si impara come risultante di nozioni, regole, testi fondamentali e principi da osservare, ma un processo che porta a farti delle domande su te stesso e sulla distanza tra come ti percepisci e come ti percepiscono gli altri, ed è dalla comprensione di quel divario che puoi scrivere le tue cose migliori. A quei corsi ho visto persone indifese naufragare, perché queste domande non hanno avuto il coraggio di porsele, in nome della sacralità della propria arte.
Ecco, non c'è niente di male a frequentare dei corsi di scrittura, è che non bisognerebbe cercarci delle risposte, ma la capacità di porsi delle domande anche dolorose.
Da questa settimana Mi.Minore diventa anche una finestra su quello che vedo, che mi piace o che mi disgusta, e in un qualche modo contagia le mie parole, anche se non è il miglior biennio per usare questo verbo.
Bouquet è la newsletter di Alina Trifan, che fa una cosa molto coraggiosa con le sue fotografie: anche se sono talmente belle da parlare da sole, lei non se le fa bastare e le mette in piccoli e radi resoconti della sua vita tra Padova, Sheffield e Chisinau, come se fossero delle volgari figure che accompagnano il testo. Io di fotografia non capisco nulla, ma non ho mai visto nessuno usare la luce lattiginosa meglio di lei. Ci si iscrive qui.
Il disco di Lucy Dacus si chiama Home Video, ed è una di quelle espressioni che adesso non hanno più alcun senso, ma che trasportano un carico emozionale da novanta, come gli anni a cui si agrappa. Il disco con quello spirito del tempo invece non c'entra niente, anzi è un disco di cantautorato che più contemporaneo si fa fatica, con una voce fredda che trasforma la noia in melodia e sperimentazione. Thumbs non va ascoltata mentre siete soli, vi ho avvisat*.
Alla fine quella tastiera meccanica di cui parlavo in un'altra puntata l'ho comprata. Fa un rumore che piace solo a chi lo emette, e vi evito la sinestesia. Al di là delle lucine tamarre, che io tengo fisse su un sobrio giallo ocra, mi fa davvero pensare a come abbia fatto finora con quelle tastiere piatte del cazzo. Si compra qui.
Sempre per tornare al rapporto nostalgico con la tecnologia degli anni Ottanta e Novanta, il mio compare di scritture musicali Marco Macchini ha scritto questo bel pezzo sulla scoperta della musica su Spento. Si legge in 13 minuti, se vi piace Bryan Adams anche in meno.
È tutto. Alla prossima.