La formazione va sempre in due sensi
Odio i posti in cui si parla di formazione senza farla. Perché basta darle un volto.
La prima volta che ho fatto formazione a qualcuno è stato quando una mia collega è venuta alla mia scrivania con un file aperto che avevo fatto
poco prima e mi ha chiesto "mi spieghi come l'hai fatto?".
Lì per lì avevo ancora paura di poter essere licenziato in tronco al primo errore marchiano, smascherando la grande truffa che ero riuscito a mettere in piedi sulle mie capacità, incassando stipendi che avevo sottratto a qualcuno che davvero si meritava il posto di lavoro che per qualche irripetibile allineamento d'astri era toccato a me, ma solo - chiariamoci - per fare in modo che il mio meritato tonfo risuonasse ancora più vibrante. Perciò pensavo di dover rispondere a quella domanda insidiosa nel modo più vago possibile, perché fosse più complesso trovare il punto esatto in cui avevo tradito la mia incompetenza. Non lo feci.
Ricordo di aver ripercorso a ritroso i ragionamenti fatti per arrivare a quel copy, mostrando le parole che avevo messo in uno di quei blocchi muji che mi piacciono tanto, affogati da una marea di frecce storte e maldisegnate. C'è stato qualche secondo di silenzio, poi la mia collega mi ha guardato, ho pensato "è finita", e mi ha detto "mi insegni a fare così?".
Quando sono rimasto da solo alla scrivania ho riguardato il blocco, poi il file, poi ho pensato a quello che era appena successo, ho cercato nel mio cervello un nome o una figura a cui aggrapparmi per ripetermi "ti basterà fare come lui o come lei", ma non ho trovato niente, non avevo nessun lui e nessuna lei a cui rifarmi, e mi sono sentito solo.
In un certo punto della mia carriera, una buona fetta della mia settimana consisteva del fare il check ai piani editoriali social che i social media manager dell'agenzia producevano. I progetti erano tanti, mi trovavo a controllare una quarantina di PED al mese, i quali avevano tutti almeno dodici post per canale, in certi casi molti di più. Era comunque un passo avanti, perché fino a qualche mese prima i PED erano venti, ma li scrivevo tutti io.
È brutto dire "catena di montaggio copy", ma di fatto quello era, e ho dovuto costruirmi qualche tecnica (ne ho parlato in questa puntata) per compilare un PED in venti minuti, ma anche per cambiare il mio personaggio, e quindi il mio tono di voce, in pochi attimi, più volte al giorno, temendo che questo mi avrebbe portato alla schizofrenia.
Quando poi sono passato al check, quei toni di voce, quelle penne diverse erano reali, venivano da persone diverse, e lì ho sviluppato una sorta di radar per i refusi, i doppi spazi, gli errori, ma anche le strutture che non funzionavano.
Ero, in un certo senso, la rete di salvataggio dei trapezisti. Un loro errore non visto da me sarebbe diventato mio; la cosa mi elettrizzava, ma mi faceva anche paura.
Sono quelle le prime cose che ho cominciato a condividere con le persone che dovevo seguire dal punto di vista della scrittura: i miei errori; le cose che avevo sbagliato io, le volte che ero caduto senza rete, e mi ero fatto male, anche se magari nessuno mi aveva visto e mi ero rialzato facendo finta di niente, con la schiena che urlava.
Quando mi siedo per la prima volta in una stanza con una persona che mi ha chiesto di trasmetterle qualcosa, qualsiasi cosa che la possa aiutare a lavorare meglio, chiudo la porta a vetri che fa quel rumore CLAC e il brusio dell'openspace si quieta all'istante.
Nel silenzio ovattato mi assale l'idea che io non possa affatto aiutarla questa persona, e allora comincio a colmare la distanza, è un po' come riempire un terrapieno per raggiungersi. Allora inizio a vangare della terra. Faccio domande.
Che cosa senti che ti manca? Cosa ti piace di ciò che fai? Cosa non ti piace? Cosa ti frustra?
Lo faccio anche per ricordarmi chi ero, le cose che mi frustravano, cosa mi piaceva e mi dava soddisfazione, e cosa invece mi lasciava di fronte all'orrore di non poter svolgere quel compito, perché nessuno sarebbe stato in grado di spiegarmi come farlo. Per ricordarmi come l'ho affrontato, inventandomi un modo per sopravvivenza, pura sopravvivenza.
Mi tengo sempre a mente che per me la scrittura non ha mai smesso di essere soprattutto un gioco, un rompicapo. È un lavoro, lo è per le persone a cui la devo trasmettere, e nel momento in cui iniziassi a vederla come un talento, una cosa innata, un impeto incontrollabile, quel momento sarebbe la fine di tutto, la delusione massima, una terribile ammissione di incapacità di fronte a chi invece vuole apprendere la scrittura dall'esperienza, e non da qualche ridicolo pippone sull'arte che si mangia l'uomo che la produce. Quindi le persone le faccio giocare.
Come si diventa bravi con un gioco? Giocandoci. Perdendo.
Una cosa è perdere mentre lavori, un'altra è perdere mentre giochi. Senti due accensioni di fallimento interiore che sono di segno opposto.
Nelle agenzie, nei social network, nei comunicati stampa, su LinkedIn si sente sempre parlare di formazione. La formazione è quell'invitato speciale che tutti aspettano al galà, di cui tutti parlano, è la persona più attesa alla festa, in grado di renderla un appuntamento per cui davvero vale la pena essere lì, e poi però intanto mentre arriva bisogna mangiare le tartine che se no si freddano, bere lo spumante che se no svampa, si scalda, e alla fine quella persona non arriva mai.
Ho parlato di formazione e sentito parlare di formazione decine, forse centinaia di volte, come di una persona di cui si parla un gran bene, ma non riuscivo proprio a immaginarmela, disegnarmela. Allora avrei voluto tante volte dire "descrivimela, dai. Com'è questa formazione? È bionda, mora, alta, dinoccolata, i ricci o una strana voglia sulla gamba, ha i nei o le lentiggini, le unghie come le tiene?". Niente, io la formazione non l'ho mai vista apparire, in modo da poterle dare un volto. "Faremo dei ragionamenti". Odio la frase “faremo dei ragionamenti”.
Io dal mio lavoro ho imparato tantissimo, mi sono scoperto a fare tante cose, non saprei neppure dire in quante direzioni si sono espanse le cose che so fare, e non c'è dubbio che le abbia imparate perché mi sono state messe in mano. Mi sono anche chiesto a un certo punto se la formazione e il lavoro non siano la stessa cosa, e oggi so che la risposta è "assolutamente no".
Se ho imparato tantissimo dal mio lavoro è perché un giorno una mia collega è venuta al mio tavolo a chiedermi "come l'hai fatto questo?", e mi ha costretto ad aggiungere una terza dimensione al processo bidimensionale che dalla richiesta mi portava alla consegna. Il "come ci sei arrivato lì", cos'è successo nella tua testa e nei fogli su cui hai preso degli appunti.
E per ogni persona che è venuta a chiedermi formazione mi sono trovato io a fare domande alle persone, a chiedere cosa le spaventasse, cosa sognassero, cosa sbagliassero più spesso. Ho scoperto che i gusti sono solo carta igienica, se non li sai spiegare. "Perché ti piace questa cosa" mi sono chiesto spesso dopo essermi emozionato di fronte a una frase, un canzone o un film, e l'ho ripetuto anche a chi mi stava davanti, sapendo che non lo sapeva, che era una domanda inedita e cui verrebbe da dire "mi piace perché mi piace, che cazzata". Sono entrato nel mondo del lavoro pensando che la formazione fosse entrare in un'aula, sedersi a un banco, guardare verso una lavagna e una persona in piedi che mi spiegava delle cose. Una sorta di scuola innestata nel lavoro. Io dalla scuola, dalla didattica, ci sono quasi scappato, perché mi dava l'impressione di essere un concetto troppo stringente, troppo invadente ormai per una vita adulta in cui volevo gestire il mio tempo e la mia voglia di imparare qualcosa come più mi andava. Per questo l'idea di fare formazione, o di riceverla, in questo modo, sul posto di lavoro, mi ha sempre lasciato freddo. E poi, ho pensato, siamo sempre di corsa, sempre in ritardo, non c'è mai il tempo. L'invitata, tanto, nemmeno si presenta alla festa, cosa la aspettiamo a fare.
La formazione sul lavoro al mio team me la sono inventata, perché non avevo voglia di aspettarla, ma anche e soprattutto perché me l'hanno chiesta le persone, e io prima ho risposto "non lo so", e poi ho aggiunto "ma se vuoi provo a capire con te come l'ho fatta questa cosa". La formazione è ricordarmi delle cose che ho scoperto, come le ho scoperte, come mi hanno fatto sentire, condividerle senza vergogna, amare le loro non perché belle ma perché diverse dalle mie. Le persone che mi hanno chiesto formazione, che mi hanno fatto domande, che hanno inseguito con curiosità vorace una risposta, che hanno avuto l'umiltà di chiedere aiuto soltanto per sentirsi un po' più sicure a lavorare, sono le persone che mi hanno insegnato tutto quello che so sul mio lavoro, perché se non ci fossero state loro io avrei solo consegnato il risultato del mio, senza chiedermi cosa mi avesse portato lì, e avrei finito per perdermi, dimenticare il senso di inseguire brief tutti diversi e dunque tutti uguali.
Oggi quindi la formazione la so descrivere, la saprei disegnare: "è parlare con qualcuno di una cosa che ha paura di non saper fare", risponderei, e di volti me ne vengono in mente tanti, tutti più giovani di me, tutti diversi, tutti volti a cui sono affezionato e a cui forse devo la vita.