#Note | Un panno piegato con cura
Quella mattina la mamma mi aveva svegliato dicendomi che le dispiaceva tanto, ma aveva trovato il canarino morto, e se volevo lo trovavo avvolto in un panno, sul tavolo della taverna. Poi mi aveva dato un bacio, nella stanza ancora buia, e prima che potessi abituare gli occhi al penetrare della luce l'avevo sentita chiudersi dietro la porta e andare a lavorare come ogni mattina.
Con ancora addosso la maglietta rattrappita che usavo per dormire avevo sceso le scale, e in mezzo alle pile di libri e riviste che si ergevano sul tavolo disordinato della taverna avevo visto lì quel panno, così fuori posto in una città di carta, faceva un ottimo lavoro nel rompere la continuità, come fa la morte.
La poca luce che filtrava dalle finestre affacciate su un portico, e che andava a morire su un pavimento di cotto color terriccio, rendeva la taverna un luogo naturalmente buio, e la luce delle sette del mattino non poteva quasi nulla. Non accesi la luce. Non permisi che quel momento si inquinasse di giallo artificiale.
La mamma aveva piegato il panno con una cura di cui io non sarei stato capace, ma sembrava un fazzoletto pronto a essere riposto in un cassetto. Non era mai stato il "suo" canarino, e forse quel mattino, quando mettendo la moka sul fuoco aveva sgranato gli occhi non vedendo l'uccellino al suo posto sulla stecchetta di plastica in cui stava appollaiato, ma trovandolo riverso sul fondo della gabbia, in mezzo ai cumuli della sua merda, aveva pensato più a me che a lui. A quanto mi sarebbe dispiaciuto. Così aveva fatto in modo di non farmelo trovare, avvolgendolo in una bara morbida, e mi aveva sussurrato la notizia svegliandomi, forse perché il sonno avrebbe potuto annacquarmi il dispiacere, ammantandolo di una patina onirica.
Nella stanza fredda in penombra, stesi prima un lembo a destra, poi un lembo a sinistra del panno verde salvia, fino a scoprirlo. Le ali lungo il corpo, il becco semi-aperto steso sul fianco, di profilo. Mi sconvolsero gli occhi chiusi. Avevo pensato che morire chiudendo gli occhi fosse una forzatura del cinema, ma che gli animali veri erano tutta un'altra cosa, e invece il mio canarino morto, avvolto in un fazzoletto, aveva la compostezza del sonno ristoratore, esausto ma calmo. Rimasi a guardarlo in silenzio in quella stanza invasa di un buio luccicante, pensando a come ci ero arrivato lì, alle promesse che non gli avevo mantenuto. "Ti farò una voliera", l'avevo detto così tante volte, e avevo immaginato lo spazio da dedicarci in terrazza così a lungo, per poi rinunciarci senza accorgermene, vinto dal pensiero di non saperlo fare davvero, e dagli impegni che avevo, sempre più importanti e improrogabili.
Da anni, forse decenni, il concetto di "migliore amico" mi si è svuotato di senso, e le persone di cui mi circondo non sono certo tutte persone per le quali darei qualsiasi cosa. Ne ho alcune di molto strette, che magari vedo molto poco ma ogni volta è come se non ci vedessimo da poche ore quando dobbiamo intuirci l'un l'altro. Non è più esistito un "migliore amico" dopo Michele, un bambino che ho conosciuto il primo giorno della prima elementare, quando abbiamo riso talmente tanto che abbiamo passato la prima ricreazione della nostra storia scolastica in castigo, noi due soli in classe, dove, un po' imbarazzati non abbiamo comunque smesso di ridere.
In uno dei pomeriggi che passavo in giardino da Michele, nel suo condominio, suo padre, un uomo magro con una voce squillante, nasale, che a volte ricordava la pernacchia che fanno alcuni pupazzi di gomma quando li schiacci, aveva aperto il basculante del garage, e un fascio di luce aveva risvegliato decine di canarini in delle gabbie fissate alla parete. Ero rimasto a fissarli affascinato. Non avevo mai visto uccellini di un giallo e arancione così luccicante. Cantavano impazziti, in un misto indistinguibile di gioia e paura. Alcuni avevano delle striature verde chiaro. Ogni tanto saltavano da un rametto di plastica all'altro, o si aggrappavano alla sbarretta di metallo della gabbia.
Non passò tanto tempo prima che mio padre mi accompagnasse dal padre di Michele a prenderne uno. Il giorno prima eravamo andati in un grosso negozio per animali e sementi, un avamposto della campagna urbanizzata in cui abitavamo, e che oggi non credo esista più. Avevo scelto una bella gabbia celeste, non piccola, costruita con uno splendido tetto a pagoda, e una porticina per raggiungere l'interno che mi sembrava una magia. Aveva altri due sportelli su cui attaccare le vaschette dei mangimi, una piccola cisterna per l'acqua da bere, e persino una vasca per fare il bagno, che si agganciava alla porta quando la aprivi. Bisognava stare attenti a non far scappare il canarino quando volevi fargli il bagno. Con mia grande sorpresa, nei primi mesi non sembrava in realtà avere alcuna intenzione di fuggire dalla sua gabbia. Ma più passava il tempo, più il canarino sembrava montare una strana rabbia ed eccitazione nei miei confronti. Se infilavo il polpastrello tra le sbarre della gabbia spalancava le ali minaccioso e mi beccava. La prima volta mi spaventai, e ci misi un po' a riprovare a mettere il dito. L'avevo chiamato Ubaldo. Così, mi sembrava un nome abbastanza ridicolo già di suo, figuriamoci darlo a un canarino. Mi divertiva l'idea di dire in giro che avevo un animaletto domestico che si chiamava Ubaldo, e in fondo credevo di non fargli affatto del male.
La prima estate con Ubaldo in casa, con le mattine libere dall'obbligo della scuola, mangiavo la mia tazza di latte e cereali e poi mi mettevo a fianco a lui in salotto, dove avevo posizionato la sua gabbietta, e lo ascoltavo cantare. Di mattina era scatenato, e non me n'ero mai reso conto mentre andavo a scuola, perché non c'ero. Nella stanza calda e illuminata di fine giugno lo guardavo cantare. Lui sembrava non guardare me. Non mi serviva molto altro. Il pomeriggio avrei visto Michele e gli altri al campetto. L'estate era appena cominciata.
Io e Michele siamo stati migliori amici per tutte le elementari e le medie, anche se dalla terza elementare non siamo mai più stati in classe assieme. Siamo andati in vacanza negli stessi posti, abbiamo fatto delle gite con i nostri genitori, ci siamo visti praticamente ogni giorno, tutto l'anno e tutte le estati. Abbiamo scoperto il fantacalcio assieme, giocandoci in due, costruendoci squadre fortissime che rendevano il gioco del tutto insensato tranne che per noi due. Lui andava a catechismo e in patronato, io non andavo a catechismo e in patronato mi sentivo sempre l'intruso miscredente, che lì non ci poteva stare perché non credeva nello stesso Dio, e che aveva meno diritto degli altri bambini di mangiare le patatine Highlander e comprarsi le lattine di Coca Cola. Non eravamo mica soli, due reietti emarginati. No, io avevo tanti amici, lui anche, molti stavano in un'intersezione tra le nostre cerchie, ma finché l'uno aveva l'altro non ci importava molto che fossimo in trenta in due. Ridere a crepapelle quel primo giorno di scuola aveva costruito un'amicizia di roccia, nonostante fossimo il giorno e la notte.
Mentre guardavo il corpo di Ubaldo ancora morbido avvolto nel panno, con quell'occhio appoggiato, pensavo che avrei voluto scrivere un messaggio a Michele, dirgli che il canarino che mi aveva dato tanti anni prima se n'era andato. Ma mi vergognavo. Mi vergognavo della gabbia che ormai era talmente incrostata di sterco che mi ero attardato a pulire, e per la quale la mamma tante volte mi aveva rimproverato. "Lo lascerai morire nella sua merda" mi diceva, quando passavo ogni limite di negligenza. Più volte aveva dovuto cambiare la sabbietta lei. Anche il bagno non glielo avevo più fatto. Non avrei saputo nemmeno ritrovare la vaschetta, penso fosse andata dimenticata da qualche parte in terrazzo, tra i vasi e le palette per i fiori, o in mezzo al cesto delle mollette per stendere la biancheria. Era ormai sporca di calcare, consumata dal freddo, la pioggia, le intemperie, o lavaggi con saponi troppo aggressivi. C'era stato anche un periodo in cui pelavo una carota e la infilavo tra le sbarre, incastrandola lì, per premiarlo. Lui ci si avventava, la beccava fino a consumarla in un po' di giorni, finché non cadeva a terra tra la sabbietta.
Mi vergognavo di dire a Michele che da un po' di tempo avevo dimenticato di avere il suo canarino. Mi vergognavo anche di come mi ero dimenticato di Michele, lasciando che fosse un piccolo uccellino morto avvolto in uno straccio a ricordarmelo.
Io ero andato al liceo, lui a un professionale. Prendevamo due autobus diversi, facevamo orari diversi, lui fino al pomeriggio, io tornavo a casa ascoltando gruppi che a lui avrebbero fatto schifo, liquidandoli con una risata gocciolante delle sue. Lui si era comprato il motorino, io avevo visto mia madre piangere perché mio fratello un giorno era tornato troppo tardi dal suo giro in motorino rispetto a quanto aveva detto, e non avevo mai voluto salirci sopra. Preferivo delle gran biciclettate. Lui aveva il cellulare già dalla terza media, io ho dovuto aspettare la fine della prima superiore; un'eternità. Ma quando ho avuto il mio, la nostra amicizia impossibile da discutere era andata alla deriva così, senza rotture, come una ciabatta dimenticata sul bagnasciuga in un'estate più distratta delle altre. Mi stavo chiedendo se Michele si ricordasse che mi aveva dato un canarino.
Mi dispiace tanto, aveva detto la mamma, e forse lo sapeva che amavo quel canarino più di quanto mi fossi ricordato di dimostrarlo negli anni. Forse lo sapeva che stavo andando incontro a quella sensazione di aver dato qualcosa per scontato, aver creduto che ogni estate la luce bianca forte nella stanza sarebbe tornata, che avrei sempre continuato a sentire il suo canto allegro. Forse sapeva che la morte di Ubaldo mi avrebbe spiegato che non tutte le cose tornano, ed era questo a dispiacerle, perché fosse stato per lei avrebbe anche fatto a meno di spiegarmelo. Mi sono chiesto solo tanto tempo dopo per quale motivo avesse portato il corpo di Ubaldo sul tavolo della taverna, una stanza in cui non avevo mai portato la gabbia; troppo fredda, troppo buia, quasi come fargli dimenticare il canto.
In quello straccio pulito e piegato bene la mamma aveva preparato questo momento, in modo che fosse il più morbido possibile, lì tra le pile di libri di un tavolo che era impossibile mettere in ordine. La taverna per lungo tempo è stata una prigione per mia madre, una stanza in cui non andava mai perché le ricordava di non avere il controllo della sua casa, che non era ordinata come voleva lei, conteneva più cose di quelle che voleva lei, c'erano i computer che le portavano via il marito e i figli per lungo tempo. Sono certo che lei non scendesse mai le scale perché la taverna la faceva stare male. Le aveva scese la mattina della morte di Ubaldo, per fare in modo che io lo salutassi lì.
Camminavo in Prato Della Valle questa mattina, e ho visto al mercato un banco che vendeva gabbie di uccellini. Erano gabbie piccole, quasi claustrofobiche. I canarini però cantavano lo stesso, e ancora come tanti anni prima non sono riuscito a distinguere la felicità dalla paura. Chissà come sta Michele, mi sono chiesto lasciandomi il banchetto alle spalle. L'avrei salutato volentieri, ma sarebbe stato troppo lungo spiegargli che sto cercando di smontare pezzo per pezzo i miei sensi di colpa e i miei rimorsi, perché erano arrivati a un punto da non permettermi più di andare avanti con la vita. Non saprei neppure con che parole raccontarglielo, non ricordo neppure quanti anni fa gli ho parlato per l'ultima volta, ma so che è stato prima di quella mattina in cui mia madre ha trovato il canarino disteso in fondo alla gabbia. Ancora oggi però se penso a chi è stato il mio migliore amico penso a lui, e oggi era una giornata di sole talmente bella che ho desiderato dopo tanti anni prendere un altro canarino, per uscire in terrazza, ascoltarlo cinguettare e cercare di capire dal suo canto se nel frattempo è vero che sono diventato una persona migliore di quella che aveva smesso persino di sentirlo.