Cosa c'entra la scrittura con la salute mentale
I tanti punti di contatto tra la terapia e la scrittura. Una guida pratica a fidarsi anche delle proprie insicurezze e disfunzioni, prima che siano loro a non fidarsi di noi.
Rieccoti qui, che bello. Questa ĆØ mi.minore, la newsletter che entra nella testa di chi scrive, e ormai la leggete in oltre 500. Io sono Marco, un copywriter e direttore creativo freelance.
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Da quando vado in terapia mi ossessiona l'idea che sia il corso di formazione più potente su cui esercito la mia scrittura. Ho delle continue epifanie in cui mi accorgo che i due contesti si compenetrano: sto pensando a come organizzare un discorso e mi rendo conto che emerge un pattern di pensiero affrontato dalla psicologa; sto parlando nel suo studio e mi rendo conto che sto esercitando delle competenze che di solito metto in campo quando scrivo, e le vedo cambiare ed evolversi.
Questa puntata non vuole far passare l'idea che si possa scrivere bene solo se si va in terapia, anche perché purtroppo prendersi cura con uno specialista della propria salute mentale è ancora un lusso, un privilegio, e non voglio sostenere la tesi -falsa- che stare bene significhi scrivere bene e viceversa. Al contrario, il mio è solo un elenco di aspetti in cui ho visto questi due mondi esondare l'uno nell'altro, fino a farmi pensare che la competenza di scrivere e quella di raccontarsi non siano poi così distanti. Anche se non avete mai scritto una parola, anche se non avete mai messo piede in uno studio psicoterapeutico.
Tratta la pagina bianca come se ti stesse chiedendo "che succede"
Scrivere è un atto che comincia sempre con una pagina bianca. Non tutte le terapie psicologiche sono uguali, ma la mia terapeuta è così: ogni seduta una tabula rasa, si parte con un "come va", che di fatto mi lascia la penna in mano e mi obbliga a tracciare un percorso, un intreccio. A delineare tempi, luoghi, personaggi, azioni, ogni settimana quasi da zero. Poi certo, seduta dopo seduta i temi tornano, si stratificano, le storie si rivivono e si arricchiscono, non si ripetono mai pari pari, ma ogni settimana si parte da una pagina bianca.
Soffro molto di questa cosa, non so nemmeno contare quante volte sono andato verso lo studio della mia psicologa pensando "che cosa cazzo le racconto oggi", pensando di non avere nulla di interessante da dire, oppure con la paura di dirla quella cosa interessante ma spiacevole.
Lo sguardo incombente della mia psicologa mi obbliga a parlare, a dire subito qualcosa. Non per forza la cosa più importante, la più bella. Inizio spesso con delle banalità stucchevoli.
Per quanto possa sembrare controintuitivo, non amo molto raccontare. Non sono un narratore, è uno sforzo che non riesco a prendere alla leggera. Perciò essere costretto una volta alla settimana a strutturare un racconto su ciò che mi porto dentro a una persona che ascolta in silenzio e che per quaranta minuti non interviene è un allenamento intensivo per me, che mi ha insegnato molto della fase iniziale di ogni atto di scrittura.
Quando ci innamoriamo dello scritto di qualcun altro, ne notiamo la costruzione, la rifinitura, il perfetto susseguirsi dei concetti e articolarsi della lingua, impattiamo poi davanti al foglio bianco con l'idea di non saper fare altrettanto. Tuttavia noi non abbiamo accesso alla prima stesura degli altri, ma solo alla nostra. Davanti a un foglio bianco va bene anche partire dalla fine, dal centro, da una parola, da una frase a metĆ senza senso.
Se conti di iniziare solo quando hai tutto chiaro in testa, non inizierai mai. La prima stesura ĆØ una macchia: la lasci cadere e aspetti di vedere dove va, come si diffonde, che forma prende, di che colore diventa. A pulire ci torni dopo.
La scrittura ĆØ finzione, ma non bugia
Il mio esaurimento nervoso che mi ha portato in terapia si ĆØ costruito su un cumulo di bugie dette a me stesso, cresciuto sino a diventare instabile e far crollare tutto. Alla mia primissima seduta di terapia, in qualche modo ho avuto la luciditĆ di essere subito di un'onestĆ brutale, con la terapeuta e quindi con me stesso.
Il motivo è semplicissimo: stavo pagando, e tanto. Mentire a sé stessi proprio come fai fuori, nella vita normale, anche in una stanza ermetica in cui paghi una persona per ascoltarti senza giudicarti è un'occasione gettata via. Succede quindi che resistere alla tentazione di raccontarci solo la versione sopportabile della realtà crea un effetto inaspettato: si creano due, tre versioni di noi, ma la cosa bella è che coesistono, interagiscono, senza annientarsi tra di loro, senza che il disastro che temevamo si verifichi.
Ho notato che da quando vado in terapia le cose che scrivo sono non per forza più oneste (scrivere è sempre inventare, e dunque finzione) ma più polifoniche. Riesco a dividermi in più voci, riesco a far vivere le contraddizioni nel testo, non ho più paura di porre problemi senza risolverli, aprire parentesi senza chiuderle.
Non ho smesso di mentire a me stesso, intendiamoci. Ogni settimana la lotta con la versione più comoda della realtà si rinnova, e parlare onestamente in terapia ha sempre un costo emotivo che si sente prima di farlo, durante e dopo averlo fatto. Ma l'onestà è un muscolo da tenere allenato, e anche l'unica via per non fare sembrare quello che pensiamo, e dunque quello che scriviamo, una voce monodimensionale.
La struttura del racconto a matriosca
Quando racconto qualcosa in terapia, capita spesso che la mia psicologa mi incalzi con una serie di "e questo come la fa sentire?", che mi fanno capire che non è del tutto soddisfatta dell'analisi che sto facendo di me stesso. Questa catena di approfondimento sulle cose, che assomiglia a un processo di zoom-in o zoom out è la struttura del racconto che ha sostituito una più primitiva che adottavo un tempo: quella della successione di eventi. Nel modo in cui scrivo oggi non rispetto più una sequenza, non mi baso più su azioni messe in fila, ma su una stratificazione di letture della stessa azione. Per chi ha letto Pastorale Americana, in cui la stessa scena è descritta anche tre o quattro volte, credo che il concetto sia più chiaro.
Le metafore diventano davvero tue
Tutti usiamo metafore quando parliamo. Il più delle volte sono codificate, sono quelle talmente di successo che sono la prima cosa che ci viene in mente: tagliare i ponti, avere i brividi, alzare bandiera bianca, volare, sentirsi sottāacqua. Piano piano sentiamo che queste espressioni popolari non ci bastano più, non rendono giustizia a come ci sentiamo; rendere "visiva" una sensazione che non esiste come concetto concreto in terapia ĆØ una necessitĆ , che ci porta a esplorare metafore più inconsuete, a volte persino buffe o truculente, ma più d'effetto. Se sei teso magari invece che essere una corda di violino puoi essere il collo tirato di una gallina. Ć tremendo sƬ, ma più dinamico, rende lāidea.
Se ti viene in mente una metafora e ti suona cliché, prova a cambiarla, a traslarla in un altro sistema semantico. Forse la più diffusa non è il modo più preciso di dire ciò che intendi.
Il silenzio ĆØ linguaggio
Abbiamo paura di tacere, soprattutto davanti agli altri. Quando esaurisco ciò che ho da dire e rimango in silenzi, la mia psicologa non lo interrompe. Io resto lì a dirmi "devo parlare, devo parlare, devo parlare" ma non so cosa dire, e quei secondi di silenzio mi sembrano durare ore, finché non mi accorgo che sono lì anche per quello, per dare un valore al silenzio. Imparare a gestire il silenzio, le pause, il non detto è uno dei miglioramenti più vistosi che possiamo dare alla nostra scrittura. Molto spesso la forza del nostro racconto sta nell'assenza, mentre muore nell'essere didascalici, nel dare sia il problema che la soluzione. Quando smetto di parlare dopo aver raccontato una cosa, non sto davvero interrompendo il flusso delle informazioni per la mia psicologa. Per lei il fatto che io non riesca ad andare avanti è molto significativo.
Raccontarsi ĆØ comprendersi
Ci sono cose di noi che non sappiamo, o che non afferriamo, o che sospettiamo ma non cogliamo. Il motivo è che non è così scontato mettersi a indagarle con consapevolezza. A volte in terapia, mentre sto parlando e faticando per mettere in piedi un racconto credibile, finisco in territori che non avevo previsto, a dire cose di cui mi sorprendo. Succede spessissimo, succede di capire le cose da solo, e quando accade la mia psicologa mi guarda in silenzio, solleva le sopracciglia per qualche secondo e annuisce. à come se mi dicesse "finalmente me l'hai detto". Questa cosa accade perché strutturare un racconto ci obbliga a fare chiarezza tra dei fatti messi in fila, tra delle cause collegate a degli effetti, ma non possiamo sapere che interpretazione daremo al racconto che stiamo facendo. Spesso è da quell'interpretazione però che intuiamo un nesso, o un senso. Perciò mettersi a scrivere senza sapere bene dove si andrà è ok, l'importante è tenere a mente il nesso causa-effetto: quello che scriviamo ha sempre una ragione, ogni scelta che compiamo passa per delle valutazioni e delle esclusioni, e a un certo punto possiamo lanciarci in un calcolo di interpretazione di quelle scelte; è in quel momento che il racconto acquisisce un senso.
Fare il copy ĆØ all'1% scrivere, e al 99% farsi domande giuste
Prima di andarci, mi immaginavo la psicoterapia come un posto in cui una persona più preparata di te ti dà consigli utili su come comportarti.
Una visione naif, sciocca, un pregiudizio puro. Adesso so che la psicoterapia non ha niente a che fare col trovare risposte. Semmai è un metodo per arrivare alle domande giuste, e per scartare quelle inutili. Ho posto tantissime domande alla mia psicologa, ricevendo sempre la stessa reazione: un sorriso tenero e un "non ho una risposta". Perché le mie non sono domande, sono scorciatoie, richieste d'aiuto.
Quando passi tutto questo tempo a scavare nelle domande, a formularne di sempre più efficaci e pertinenti, succede che diventi bravo a fartele. E quindi questa cosa torna utile anche se il tuo lavoro è scrivere per gli altri. Ogni cosa che scriviamo poggia su decine di domande che utile porsi:
- ho scritto una cosa che può offendere qualcuno?
- ho scritto qualcosa che qualcuno può interpretare in modo diverso?
- ho scritto una cosa che sarei in grado di smontare e rimontare?
- le mie parole sono costruite per arrivare o per ingannare?
- su quale aspetto emotivo delle persone sto facendo leva?
Ho già raccontato di come fare il copywriter coincida con lo sviluppare un'empatia con le persone. La terapia mi ha migliorato come professionista perché mi ha insegnato a insistere con le domande, invece che affrettarmi a cercare delle risposte che validassero la mia scrittura.
La cosa più importante che mi piace ricordare è che nel momento in cui scriviamo abbiamo il controllo su di noi e su chi legge, perciò in un certo senso scrivere è una responsabilità . Disporre dei concetti in un testo significa esercitare un dominio temporale sulla mente di chi sta leggendo, accompagnarlo nella nostra testa. Non è davvero rilevante che noi stiamo bene o malissimo perché la nostra scrittura ci aiuti o produca dei risultati in grado di toccare le altre persone. Quello che importa è che abbiamo il coraggio di guardare dentro al pozzo. Ecco cosa c'entra la scrittura con la salute mentale.
Che bello il decalogo finale. Mi sono accorto che anche io, senza volerlo, ne ho uno tutto mio che si attiva al bisogno.
Ho anche apprezzato il paragrafo sulle metafore. Il mio pattern? Immagini culinarie e "gustose" - comprensibili a tutte le persone (o almeno, a quelle che non spezzano gli spaghetti).
Che bella questa lettura, il tuo racconto risuona molto in me per tanti aspetti, di vita e professionali, e le metafore da ricercare nei propri stati mentali ed emozionali sono effettivamente il sistema migliore per tracciare una via, una scrittura ed un progetto. Bello leggerti!